15 Gen Jacques Lacan, L’identificazione, Seminario 1961 – 1962
Jacques Lacan, L’identificazione, Seminario 1961 – 1962
Passi scelti e tradotti da Luigi Burzotta
LA SCRITTURA
L’identificazione Lezione VII
Possiamo considerare la funzione della scrittura come latente allo stesso linguaggio: si tratta cioè della funzione del segno in quanto si legge come un oggetto. Alla radice della scrittura in cui si costituisce il linguaggio c’è la lettura dei segni. Questa lettura dei segni anticipa di un millennio l’uso degli stessi segni negli alfabeti che sono antenati dei nostri: come gli alfabeti latino, etrusco, ecc. Li ritroviamo per un vezzo della storia in una forma identica nelle marche presenti sul vasellame predinastico dell’antico Egitto. Sono gli stessi segni, anche se è escluso che fossero impiegati in un uso alfabetico, che ritroviamo, alla fine del paleolitico, sui ciottoli del Mas d’Azil. La presenza di questi elementi, come segni da leggere quando ancora non c’è scrittura, ci porta alla radice del legame del linguaggio con il reale. Questa origine non è da confondere con una genesi psicologica, puramente utilitaria, strumentale e pratica, ma è da considerare come ciò che situa il linguaggio in un ordine, un registro, una funzione capace di funzionare al di fuori della coscienza del soggetto.
Si tratta allora di stabilire la giunzione del funzionamento del linguaggio con qualcosa che nel reale ne porta la marca.
Il soggetto, a quel tempo, di fronte a qualche cosa che era marca, segno, leggeva prima ancora che si trattasse di segni di scrittura. Egli si accorgeva che dei segni potevano eventualmente portare dei pezzetti, diversamente ridotti, ritagliati, della sua modulazione parlante. Rovesciando questa funzione questi segni potevano in seguito funzionare come supporto fonetico.
La scrittura comincia sempre con l’uso combinato di segni abbreviati, semplificati, cancellati, che sono impropriamente chiamati ideogrammi. La combinazione di questi disegni, con un uso fonetico d’altri segni che hanno l’aria di rappresentare qualcosa, è evidente nei geroglifici egiziani. Prendiamo la figura del gufo reale per esempio che ritorna con una gran frequenza nella scrittura egizia e ci rendiamo conto che non rappresenta mai il gufo, ma una m, oppure una funzione d’attenzione come ecco, oppure qualcosa che accentua e isola il verbo come negativo. Vediamo qui incarnata in modo manifesto e immediato la coalescenza più primitiva del significante con la negazione.
Se si riduce la genesi del linguaggio ad una dimensione psicologica, facendo del significante qualcosa che si elabora a partire da un segno emozionale, allora la problematica della negazione si pone subito sotto l’aspetto di un salto, un empasse.
Se riconduciamo invece la negazione alla genesi stessa del significante, alla sua radice esistenziale, allora la sua problematica primaria si situa al livello della struttura: la manipolazione semplificatrice dell’oggetto è la sua riduzione ad un segno.
La strutturazione del linguaggio s’identifica al reperimento della prima congiunzione di un’emissione vocale con un segno. Questa prima manipolazione dell’oggetto, la definiamo semplificatrice quando si tratta di definire la genesi del tratto. Che cosa c’è di più distrutto, di più cancellato di un oggetto se dall’oggetto sorge il tratto, che di quest’oggetto trattiene solo la sua unicità? La cancellazione, la distruzione totale d’ogni sua emergenza, d’ogni suo prolungamento, d’ogni sua appendice, di tutto ciò che può esservi di ramificato, di palpitante, sta qui il rapporto dell’oggetto con la nascita del segno, in quanto prelude alla nascita del significante.
La scoperta che noi abbiamo fatto è che in un tempo storicamente definito c’era qualcosa che poteva essere letto con qualcosa dell’ordine del linguaggio, quando ancora non c’era scrittura. È con il rovesciamento di questo rapporto di lettura del segno che può nascere in seguito la scrittura nel momento in cui questa può servire a connotare il fonema.
- Riduzione d’oggetti ad un tratto, segno, marca.
- Congiunzione dell’emissione vocale con il tratto che equivale alla lettura del segno.
- Rovesciamento del rapporto per cui il segno connota il fonema, di modo che qualcosa nel linguaggio riceve l’informazione del segno.
Il nome proprio, in quanto specifica il radicamento del soggetto, è particolarmente legato non alla fonetizzazione, alla struttura del linguaggio, ma a ciò che nel linguaggio è pronto a ricevere l’informazione del tratto; lo dimostra il fatto che il nome proprio non si traduce da una lingua all’altra ma si trasferisce così com’è, io mi chiamo Lacan in tutte le lingue e ciascuno dunque con il suo nome.
Questo c’induce ad interrogarci sul punto radicale, arcaico che dobbiamo supporre necessariamente all’origine dell’inconscio, in quanto il soggetto che parla non può far altro che avanzare sempre nella catena, nello svolgimento degli enunciati, ma dirigendosi verso gli enunciati non può evitare di elidere nell’enunciazione qualcosa che egli giustamente non può sapere, cioè qual è il suo nome in quanto soggetto dell’enunciazione. Nell’atto dell’enunciazione c’è quella dominazione latente, concepibile come il primo nocciolo significante di ciò che in seguito si organizzerà come catena girevole, quella che vi ho rappresentato attorno a quel centro, a quel cuore parlante del soggetto che chiamiamo inconscio.
Freud ha rappresentato tutto questo in un sistema che si articola come inconscio preconscio conscio. Spesso ho tentato di descrivere sotto forme diversamente elaborate i paradossi con i quali le formulazioni di Freud ci mettono a confronto, nel Progetto di una psicologia per esempio. Oggi mi atterrò ad una sistemazione topologica che egli ci dà nell’Interpretazione dei sogni, cioè quella degli strati attraverso i quali possono avvenire dei superamenti, delle soglie, delle irruzioni da un livello ad un altro, in particolare quel che più c’interessa del passaggio dell’inconscio al preconscio. Laplanche e Leclaire in un loro articolo l’Inconscio, s’interrogano sull’ambiguità che resta nell’enunciazione freudiana, riguardo al passaggio di qualche cosa che stava nell’inconscio e va nel preconscio. Essi si chiedono se si tratta di un cambiamento d’investimento oppure di una doppia iscrizione. Gli autori non dissimulano la loro preferenza per la doppia iscrizione. Tutta via è un problema che il testo lascia aperto.
Se l’inconscio è quel luogo del soggetto in cui qualcosa parla, possiamo dire che qualcosa, all’insaputa del soggetto è profondamente rimaneggiato dagli effetti retroattivi del significante implicate nella parola. In quanto il soggetto parla egli non può fare altro che nominarsi sempre una volta di più senza saperlo e senza sapere con quale nome.
Per situare i rapporti tra inconscio e preconscio il limite non può essere situato da principio all’interno di un soggetto equivalente a ciò che si chiama lo psichico. Il soggetto inconscio comporta un’altra costituzione di frontiera rispetto al preconscio, in quanto ciò che c’interessa nel preconscio è il linguaggio, non solo il linguaggio che effettivamente sentiamo parlare, ma in quanto esso scandisce e articola i nostri pensieri. Ognuno sa che i pensieri inconsci, anche se dico che sono strutturati come un linguaggio, non è facile di farli esprimere nel linguaggio comune. Il linguaggio articolato nel discorso comune, in rapporto al soggetto dell’inconscio, è al di fuori. Un al di fuori che congiunge in sé, ciò che noi chiamiamo pensieri intimi, con questo linguaggio che scorre al di fuori, nel soffio della parola: il discorso effettivo, il discorso preconscio è interamente omogeneizzabile con qualcosa che si tiene al di fuori. Il problema di ciò che succede quando l’inconscio viene lì a farsi intendere è il problema del limite che c’è tra inconscio e preconscio.
A questo proposito possiamo indicare che passando dall’inconscio nel preconscio, ciò che si è costituito nell’inconscio incontra un discorso già esistente, un gioco di segni in libertà, non solo interferente con le cose del reale, ma intessuto strettamente come un micelio nell’intervallo tra queste. La vera ragione forse della fascinazione, dell’invischiamento idealista. Nell’esperienza filosofica, se l’uomo si accorge che ha sempre solo le idee delle cose, che delle cose cioè egli conosce soltanto le idee, questo accade perché, già nel mondo delle cose, è impossibile disfare quest’impacchettatura in un universo del discorso. Il preconscio è già nel reale, mentre lo statuto dell’inconscio pone un altro problema in quanto si è costituito ad un altro livello, al livello più radicale dell’emergenza dell’atto d’enunciazione.
L’inconscio per sua struttura e posizione non potrebbe penetrare al livello in cui è suscettibile di una verbalizzazione preconscia. Tuttavia, ci si dice, quest’inconscio ad ogni istante, si sforza, spinge per farsi riconoscere. Sicuramente a ragione, perché lì dove sta di casa, si trova in un universo strutturato dal discorso. Allora il passaggio dall’inconscio al preconscio sarebbe una sorta di normale irradiazione di ciò che gira nella costituzione dell’inconscio, dove pure vige il funzionamento primario e radicale del soggetto in quanto parla.
Ciò che bisogna considerare è che l’ordine di successione inconscio, preconscio per giungere al conscio non è accettabile senza essere revisionato. Si tratta di ammettere che il preconscio, definito come ciò che si trova nella circolazione reale del mondo, deve essere letto allo stesso modo e secondo la stessa impostazione strutturale che io propongo in quel punto radicale in cui qualcosa viene ad apportare al linguaggio la sua ultima sanzione [quella operata dalla lettura del segno per la nascita della scrittura]. Per il fatto della presenza del linguaggio nel reale, per il soggetto si tratta di una lettura di ciò che sta al di fuori, nell’ambiente, rispetto al quale la coscienza è la pellicola superficiale attraverso la quale l’inconscio riceve dal di fuori, dal preconscio, i suoi propri pensieri. La coscienza fa da filtro perché l’inconscio possa rifiutare o scegliere, in ciò che gli viene dal preconscio, ciò che gli serve per le sue funzioni.
Al livello del preconscio ciò che cerchiamo è l’identità dei pensieri. Com’è stato elaborato da tutto un capitolo della filosofia, lo sforzo logico della nostra organizzazione del mondo è di ridurre la diversità all’identico.
A leggere Freud ciò che cerca l’inconscio è l’identità di percezioni. Il rapporto dell’inconscio con ciò che cerca, nel suo modo proprio di ritorno, è l’identicamente identico a ciò che una volta ha percepito, è il percepito di quella volta là, quell’anello che si è passato al dito con il punzone di quella volta là. Ed è propriamente ciò che mancherà sempre in ogni specie di altra riapparizione che dovrebbe corrispondere a quel significante originario. Qualunque cosa lo venga a rappresentare, quel punto in cui è la marca che il soggetto ha ricevuto nella rimozione originaria, mancherà sempre. La marca unica del primo sorgere del significante originario, che si è presentato una volta, nel momento in cui quel punto della rimozione originaria è passato all’esistenza inconscia, è passato allo stato di insistenza di un ordine interno che è l’inconscio, dove le cose che riceve dal mondo esterno, in quanto necessitano di essere legate nella forma significante, non può che riceverle nella loro differenza, mentre ciò che lo specifica come inconscio è quello di ricercarvi un’identità percettiva. Questo ci obbliga a modificare leggermente l’ordine della triade percettiva in conscio inconscio preconscio e giustifica la mia formula che l’inconscio sta tra percezione e coscienza, tra pelo e pelle (entre cuir et chair).
Dal Seminario di Jacques Lacan L’identificazione, Lezione X
La libido
Si tratta di ciò di cui ci parla Freud nell’Introduzione al narcisismo, cioè che noi amiamo l’altro con la stessa sostanza umida della quale siamo il serbatoio, [con ciò] che si chiama libido, che in quanto sta qui in 1, può essere là in 2, cioè avvolgente, annegante, bagnante l’oggetto di fronte. La referenza dell’amore all’umido non è mia, è nel Simposio che abbiamo commentato l’anno scorso. Moralità di questa metafisica dell’amore, perché è di ciò che si tratta, l’elemento fondamentale della Liebesbedingung, della condizione dell’amore, la moralità [è che], in un certo senso io non amo, – ciò che si chiama amore, ciò che noi chiamiamo amore, si tratta poi di vedere ciò che c’è come resto al di là dell’amore, dunque ciò che si chiama amore in un certo modo, – io non amo che il mio corpo, anche quando questo amore lo trasferisco sul corpo dell’altro. Certamente ne resta una buona dose sul mio. È anche fino ad un certo punto indispensabile, non fosse, nel caso estremo, che al livello di ciò che bisogna pure che funzioni auto eroticamente, vale a dire il mio pene, per adottare per semplificazione il punto di vista androcentrico. Questo ha solo un inconveniente, questa semplificazione, come vedrete perché non è ciò che c’interessa. Ciò che c’interessa è il fallo.
Vi ho proposto di definire in rapporto a ciò che amo nell’altro, che lui è sottomesso a questa condizione idraulica d’equivalenza della libido, cioè che quando questa monta da un lato, monta pure nell’altro, [di modo che] ciò che desidero, che è differente da ciò che provo, è ciò che, sotto forma di puro riflesso di ciò che resta in ogni caso investito di me, è propriamente ciò che manca al corpo dell’altro, in quanto lui è costituito da questa impregnazione dell’umido dell’amore. Dal punto di vista del desiderio, al livello del desiderio, tutto questo corpo dell’altro, almeno per poco che lo ami, non vale propriamente che per ciò che gli manca ed è precisamente per questo che l’eterosessualità è possibile. Soltanto bisogna intendersi, perché, se è vero, come l’analisi c’insegna, che è per il fatto che la donna sia effettivamente, dal punto di vista del pene, castrata, che fa paura a certuni, ciò che noi diciamo lì non è affatto insensato, e non è insensato perché è evidente, lo si incontra a tutte le svolte nel nevrotico, insisto e dico che è proprio lì che l’abbiamo scoperto.
L’identificazione Lezione XI
Se la funzione del desiderio è lungi dall’essere comodità, conforto e concessione alimentare, voi mi direte che sicuramente non è lungi dal compromesso. Ma i compromessi che questa funzione del desiderio deve attraversare sono di un altro ordine che quelli su cui si fonda una comunità. Questi compromessi interessano il rapporto di un istinto di vita con un istinto di morte. L’istinto di morte, non è un vero roditore, un parassita, una ferita, nemmeno un principio di contrarietà, per Freud è un principio che avvolge tutto il giro della vita per dargli un senso. L’istinto di morte diviene così il significante della vita. Ripetendo sempre lo stesso giro, obbligata dal principio di piacere, la vita, in questo quadro, è solo il disegno per ritornare all’inanimato. L’istinto di vita non è meno strano in Freud perché è ridotto all’Eros, alla libido.
Si può vedere a questo punto, a quali punti di contatto siamo ridotti nella nostra relazione con il corpo. Si tratta di quella scelta che nella teoria viene a materializzarsi in modo evidente in un certo numero di figure, che ci mettono di fronte a difficoltà per poterle giustificare, e a delle aporie per definirle esattamente. La funzione del fallo, per essere quella attorno a cui viene ad articolarsi l’Eros, la libido, designa sufficientemente ciò che queste figure rappresentano.
Per stabilire dei limiti e dare il punto elettivo di contatto della nostra pratica con il corpo, perché è il supporto, la presenza della vita, occorre che passiamo non per la biologia, ma per l’ambiguità della nozione del narcisismo. Basti pensare, partendo dall’Introduzione al narcisismo, all’accento messo sulla funzione del dolore, non come segnale di pericolo, ma come fenomeno di autoerotismo.
L’esperienza che un dolore ne scaccia un altro ci fa intendere come l’investimento libidico sul proprio corpo è sottomesso alle stesse leggi di parzialità che regolano il rapporto con gli oggetti del desiderio. Il dolore non è semplicemente, per sua natura, trafittivo, esso è privilegiato, può essere feticcio. Tutto questo ci permette di introdurre la questione, di che cosa vuol dire l’organizzazione soggettiva, nel processo primario, riguardo a ciò che ha oppure non ha rapporto con il corpo.
Il soggetto tre 1 e -1
Non c’è alcuna possibilità di dedurre empiricamente la funzione del numero, per esempio da una collezione, dove ci si può illudere di estrarre la differenza dalla diversità: l’unità e lo zero, perché riducono a nulla la collezione, sono ciò che c’è di più resistente per tentare una genesi sperimentale del numero.
È invece dalla funzione del tratto unario che possiamo ricavare la genesi della differenza, partendo da una linea di semplificazione tale che ci porti a una fila di aste, cioè la ripetizione dell’apparentemente identico. È da questo tratto ripetuto, come quello del cacciatore primitivo sulla costola d’antilope, che è creato, colto non tanto il simbolo ma il primato della scrittura, come ingresso nel reale del significante inscritto.
[Da qui in poi Lacan rovescia] la polarità della funzione dell’unità, abbandonando l’unità unificante per l’unità distintiva (tratto unario). [Egli vuole così] articolare la solidarietà dello statuto del soggetto, in quanto legato a questo tratto unario, con l’elemento costitutivo della sua struttura; quello in cui la pulsione sessuale, tra tutti i portati del corpo, ha la sua funzione privilegiata.
Che il legame del soggetto a questo tratto unario sia un fatto importante nella nostra esperienza è messo in primo piano da Freud, con ciò che egli chiama narcisismo delle piccole differenze. È la stessa cosa che io chiamo funzione del tratto unario, perché, dire piccola differenza, altro non vuol dire che la differenza assoluta di cui parlo io, quella differenza staccata da ogni possibilità di comparazione. È da questa piccola differenza, poiché è la stessa cosa del grande I – l’Ideale dell’io – che può accomodarsi tutta la mira narcisistica; il soggetto si costituisce come portatore oppure no di questo tratto unario.
Questo ci permette di riprendere la funzione della privazione. C’è del meno a, nel mondo, c’è un oggetto che manca al suo posto, che è pure la concezione più assurda del mondo, se si dà il suo senso al termine reale. Forse che può mancare qualcosa nel reale?
È proprio a causa della difficoltà di questa questione che possiamo vedere trainare in Kant, al di là dunque dell’intuizione pura, tutti i vecchi resti che lo ingombrano di teologia, sotto il nome di concezione cosmologica. In mundo non est casus, In mundo non est fatum, In mundo non est saltus, In mundo non est hiatus. Il grande confutatore delle imprudenze metafisiche prende a suo carico queste quattro denegazioni che io vi chiedo, nella nostra prospettiva di considerare nello statuto inverso, con il quale noi abbiamo a che fare: con dei casi, nel senso proprio del termine, con un fato propriamente parlando, poiché il nostro inconscio è oracolo, e tanti hiatus (crepe) quanti sono i significanti distinti, tanti salti quante sono le metonimie che si producono. È perché c’è un soggetto che marca se stesso oppure no col tratto unario, che è 1 oppure –1 che può esserci un –a, che il soggetto può identificarsi alla pallina del nipotino di Freud.
Se il nipotino di Freud può identificarsi alla mancanza dell’oggetto, questo accade perché egli stesso è l’oggetto. Se non c’è niente, egli stesso è niente. Ens privativum, leerer Gegenstand ohne Begriff, oggetto vuoto senza concetto; è da questo vuoto che parte il soggetto.
La contropartita la troviamo nel quadro che illustra i tre termini, castrazione – frustrazione – privazione, dove l’agente immaginario da cui può derivare questa privazione è il soggetto dell’onnipotenza immaginaria, cioè l’immagine rovesciata dell’impotenza. Ens rationis, leerer Begriff ohne Gegestand, concetto vuoto senza oggetto, puro concetto della possibilità. Questo è il quadro in cui si situa e appare l’ens privativum.
Kant ironizza sull’uso della formula: ogni reale è possibile. Fa ancora di più rilevando che dunque qualche reale è possibile, e che questo può voler anche dire che qualche possibile non è reale, che c’è del possibile che non è reale. Ciò che a noi interessa è discorrere che il possibile di cui si tratta è soltanto il possibile del soggetto. Solo il soggetto può essere questo reale reso negativo di un possibile che non è reale.
Il –1 costitutivo della privazione lo vediamo così legato alla struttura più primitiva della nostra esperienza dell’inconscio poiché questa consiste nel non-detto, l’esperienza del punto in cui il soggetto non è più in grado di dire questa sua identificazione all’1, o meglio all’assenza improvvisa di questo 1 che potrebbe marcarlo.
L’identificazione Lezione XII
Cominciando ad abbordare con la privazione il punto centrale della struttura dell’identificazione del soggetto, organizzando i miei pensieri intorno a questo, mi mettevo a ripartire da qualche considerazione introduttiva, che faceva sì eco a quegli strani personaggi che si chiamano filosofi, ma che, in ciò che ci concerne, può ridursi a quella che è l’esperienza inaugurale di tutti quanti, filosofi e psicanalisti: che il soggetto si sbaglia. Esperienza che a noi interessa esclusivamente poiché si può dire, un dire che si dimostra infinitamente fecondo, specialmente nell’analisi.
Eminenti pensatori hanno fatto l’osservazione che se ciò di cui si tratta in questa faccenda dell’errore, riguarda il reale, allora la via di rettificazione dei mezzi del sapere potrebbe allontanarci indefinitamente da ciò che si tratta di raggiungere, cioè l’assoluto. Poiché è del reale semplicemente che si tratta allora [per noi] si tratta di questo: occorre raggiungere ciò che è mirato, come indipendente dai nostri ormeggi. Nella ricerca di ciò che è mirato, è questo che si chiama assoluto: mollare tutto, ogni sovraccarico. È sempre in un modo sovraccaricato che [al contrario] i criteri della scienza, almeno nella prospettiva filosofica, si tendono a stabilire. Per non parlare dei sapienti che, lungi da quel che si crede, essi non dubitano proprio. In questa misura siamo più che mai sicuri che essi approcciano al minimo il reale.
Noi dobbiamo fare alcune osservazioni nella prospettiva filosofica della critica della scienza e segnatamente dobbiamo diffidare di inoltrarci nella critica del termine apparenza, perché l’apparenza è ben lungi dall’essere nostra nemica, quando si tratta del reale. Per esempio è all’apparenza della figura del cubo che è affidata la realtà del cubo, è grazie all’apparenza di questa figura che la realtà del cubo salta agli occhi. Se vogliamo ridurre quest’immagine a un’illusione ottica noi ci distogliamo semplicemente dal cubo, cioè dalla realtà che quest’artificio è fatto per mostrarci. Vale la stessa cosa nella relazione con una donna. Ogni approfondimento scientifico di questa relazione condurrà alla formula celebre del colonnello Bramble, che riduce l’oggetto di cui si tratta, la donna in questione, a ciò che esso può essere dal punto di vista scientifico, un agglomerato di albuminoidi, cosa che evidentemente non concorda con il mondo di sentimenti che sono legati al detto oggetto. È chiaro che la vertigine dell’oggetto nel desiderio questa specie d’idolo, di adorazione che può farci prosternare, o almeno farci chinare davanti a una mano, non è perché si tratta della sua mano, ma perché in un luogo un po’ più in alto, qualche peluria sull’avambraccio può assumere per noi improvvisamente quel gusto unico che ci fa in qualche modo tremare davanti all’apprensione pura della sua esistenza. È evidente che questo ha più rapporto con la realtà della donna che qualsiasi delucidazione di ciò che si chiama attrattiva sessuale. Insomma nella spiegazione dell’attrattiva sessuale bisogna mettere in conto come principio l’illusione, poiché l’illusione è la sua stessa realtà.
Se dunque il soggetto s’inganna, può aver ragione dal punto di vista dell’assoluto. Resta tuttavia e anche per noi che ci occupiamo del desiderio che il termine errore conserva il suo senso. Tuttavia se questo termine errore può avere un senso per il soggetto non può che trattarsi di un errore di conto.
L’identificazione Lezione XIII
Precisazione di quanto elaborato nella precedente lezione sul quadrante di Peirce.
Spero di essermi fatto intendere, per ciò che concerne il soggetto, avendolo simbolizzato con -1, il giro necessariamente non contato, contato in meno nella migliore delle ipotesi, cioè quando [il soggetto nel suo costituirsi] ha fatto il giro del toro. Il fatto che ho subito teso il filo che rapporta la funzione di questo -1 al fondamento logico d’ogni possibile affermazione universale, cioè la possibilità di fondare l’eccezione, come quella che non conferma la regola, ma la fonda, in quanto è l’eccezione il vero principio della regola. [Intendo dire che] affermando come sola assicurazione della proposizione affermativa universale l’esclusione di un tratto negativo, non c’è uomo che non sia mortale, [tale affermazione] ha potuto prestare ad una confusione che ora intendo rettificare. La parte vuota del mio quadrante, dove non c’è niente, a quel livello lì bisogna ancora considerarla come staccata. Il -1 che è il soggetto, a quel livello, per se stesso non è per niente soggettivato, ancora non si tratta per niente di sapere o di non sapere. Perché qualcosa arrivi dell’ordine di questo avvento, occorre che tutto un ciclo sia compiuto di cui la privazione è solo il primo passo. Si tratta di una privazione reale che io ho forgiato con il supporto dell’intuizione appoggiandomi ad uno schematismo per rendervelo più sensibile. È solo dopo un lungo giro che può accadere per il soggetto questo sapere del suo rigetto originario. Ma da qui a lì saranno passate molte cose, perché quando il soggetto verrà alla luce, egli sappia non solo che questo sapere lo rigetta, ma questo sapere è esso stesso da rigettare in quanto esso si rivelerà di essere sempre sia al di là sia al di qua di ciò che bisogna raggiungere per la realizzazione del desiderio. Detto altrimenti, semmai il soggetto arriva a quello che è il suo fine fin dal tempo di Parmenide e cioè all’identificazione, all’affermazione che pensare [1] ed essere [-1] è lo stesso, a quel momento lì si troverà irrimediabilmente diviso tra il suo desiderio [-1] e il suo ideale [1]. Possiamo riportare tutto questo alla struttura del toro la cui costruzione è stata resa necessaria per definire ciascuno dei giri come un uno irriducibilmente differente. Perché questo sia reale, cioè che questa verità simbolica, in quanto suppone il conto, il contare, sia fondata, si introduca nel mondo, occorre e basta che qualcosa sia apparso in questo reale, ed è il tratto unario. Si comprenderà che davanti a questo uno, che è ciò che dà tutta la sua realtà all’ideale, l’ideale è tutto ciò che c’è di reale nel simbolico e questo basta. Si comprende allora come alle origini del pensiero, ai templi di Platone, per non risalire più indietro quest’uno abbia portato con sé l’adorazione, la prosternazione divenendo il bene, il bello, il vero, l’essere supremo; ma per quanto legittima possa essere quest’adorazione dal punto di vista dello slancio affettivo ciò non toglie che questo uno non è nient’altro che la realtà di una stupidissima asta. Ogni tacca del cacciatore primitivo sulla costola d’antilope era fatta per distinguerla da tutte le altre. A questo livello, in cui il soggetto è questa privazione nella cosa [la tacca non segnata nella costola], egli non sa che egli è [nella] privazione che egli è nel giro non contato.
Noi abbiamo altri elementi d’informazione perché da lì egli venga a costituirsi come desiderio e che egli sappia il rapporto che c’è tra questa costituzione e quell’origine.
Il passo seguente è quello della frustrazione, benché potrei anche non connotarlo con un titolo di testa. È a livello della frustrazione che s’introduce per il soggetto la possibilità di un nuovo passo essenziale, [ma che si può compiere soltanto] con l’Altro.
(…)
L’oggetto del suo desiderio, il soggetto può accingersi a dirlo. Anzi non fa che questo [: accingersi a dirlo]. È più di un atto di enunciazione, è un atto d’immaginazione. Questo suscita in lui una manovra della funzione immaginaria, e in un modo necessario questa funzione si rivela necessaria dal momento in cui appare la frustrazione.
Voi sapete l’importanza, l’accento che ho messo, a seguito di sant’Agostino, sul momento del risveglio della passione gelosa nella costituzione di quel tipo d’oggetto, che è quello stesso che abbiamo costruito come soggiacente a ciascuna della nostre soddisfazioni, il bambino in preda alla passione gelosa davanti a suo fratello che, per lui, in immagine, fa sorgere il possesso dell’oggetto, il seno segnatamente che fino ad allora è stato solo l’oggetto soggiacente, eliso, mascherato per lui dietro quel ritorno di una presenza legata a ciascuna delle sue soddisfazioni; che, in questo ritmo in cui si è inscritta, in cui si sente la necessità della sua prima dipendenza, è stato solo l’oggetto metonimico di ciascuno dei suoi ritorni, eccolo improvvisamente per lui prodotto nel bagliore, i cui effetti ci sono segnalati dal pallore mortale, nel bagliore di qualcosa di nuovo che è il desiderio. Il desiderio dell’oggetto come tale, in quanto esso risuona fino al fondamento stesso del soggetto, che scuote ben al di là della sua costituzione come soddisfatto o non, come improvvisamente minacciato nel più intimo del suo essere, rivelando la sua mancanza fondamentale, e questo nella forma dell’Altro, mettendo alla luce al tempo stesso la metonimia e la perdita che essa condiziona. Questa dimensione di perdita essenziale alla metonimia, perdita della cosa nell’oggetto, è lì il vero senso di quella tematica dell’oggetto in quanto perduto e mai ritrovato, [quello] stesso che è al fondo del discorso freudiano, e continuamente ripetuto.
Un passo di più: se noi spingiamo la metonimia più lontano, è la perdita di qualcosa di essenziale nell’immagine, in quella metonimia che si chiama io, a quel punto di nascita del desiderio, a quel punto di pallore in cui Agostino si sofferma davanti al lattante, come fa Freud davanti al nipotino diciotto secoli dopo. È errato che si possa dire che l’essere di cui sono geloso, il fratello, è il mio simile, esso è la mia immagine, nel senso in cui l’immagine di cui si tratta è l’immagine fondatrice del mio desiderio. Lì è la rivelazione immaginaria ed è il senso e la funzione della frustrazione. Ma come per la privazione reale ho cercato oggi di situarvi, al fine che c’interessa, a cosa questa serve, cioè nella fondazione del simbolico, allo stesso modo dobbiamo qui vedere come questa immagine fondatrice, rivelatrice del desiderio si sistemerà nel simbolico. Sistemazione difficile e che sarebbe nondimeno impossibile se il simbolico non fosse [già lì], se l’Altro e il discorso in cui il soggetto deve prender posto non l’attendessero da sempre, prima della sua nascita e che per lo meno, tramite la madre, la nutrice, gli si parli.
La sistemazione della frustrazione nel simbolico è difficile a causa dell’incrocio, dello scambio ingenuo che si produce tra desiderio e domanda tramite la dimensione dell’Altro. È a questa trappola che il nevrotico si è lasciato prendere ed egli tenterà di far passare nella domanda non la soddisfazione del bisogno per cui la domanda è fatta, ma la soddisfazione del desiderio, averne cioè l’oggetto, precisamente cioè ciò che non si può domandare. Come pure tenterà, ancora più paradossalmente di soddisfare alla domanda dell’Altro, conformando il proprio desiderio. È questo il senso del Superio. (…) Per il suo desiderio gli occorre la sanzione di una domanda.
L’identificazione Lezione XIV
Nell’abbraccio simbolico dei due tori s’incarna immaginariamente il rapporto vissuto dal nevrotico, dove vediamo in una misura clinica che egli tenta di fondare, istituire il suo desiderio in dipendenza dalla domanda dell’Altro.
In questo nodo con l’Altro, come qui è immaginato, c’è un rapporto di illusione che noi conosciamo bene, perché siamo ogni giorno il supporto stesso della sua pressione nell’analisi, poiché il soggetto nevrotico si presenta davanti a noi esigendo da noi la risposta, anche se noi gli insegniamo il guadagno che c’è a sospenderla questa risposta. Risposta su che cosa? È proprio questo che giustifica il nostro schema poiché ci mostra che desiderio e domanda, sostituendosi l’uno all’altra, la risposta di cui si tratta è propriamente sul suo desiderio e sulla sua soddisfazione.
Si tratta d’articolare bene a quali coordinate si sospende questa domanda di risposta fatta all’Altro.
Le coordinate sono quelle che Freud fissa come versagen (non soddisfare), la Versagung (rifiuto), le dédit (il disdirsi), o ancora la parola fallace, la rottura di promessa…
Il rapporto essenziale della frustrazione, con la quale abbiamo a che fare, con la parola, è il punto da sostenere, da mantenere sempre radicale, in mancanza del quale il nostro concetto di frustrazione si degrada, degenera fino a ridursi al difetto di gratificazione, concernente ciò che in fine può essere concepito come bisogno.
Ciò che il genio di Freud ci rivela è questo, che il desiderio è fondamentalmente, radicalmente strutturato da questo nodo che si chiama Edipo, dove è impossibile eliminare quel nodo interno costituito dal rapporto tra una domanda, che prende un valore cosi privilegiato da divenire comandamento assoluto, legge, e un desiderio, il desiderio dell’Altro, dell’Altro di cui si tratta nell’Edipo. Questa domanda si articola così: tu non desidererai, quella che è stata il mio desiderio. Ora è questo che fonda nella sua struttura essenziale la partenza della verità freudiana. A partire da lì ogni desiderio possibile è in qualche modo obbligato a questa specie di giro irriducibile, qualcosa di somigliante all’impossibilità nel toro di ridurre il laccio su certi cerchi, di modo che il desiderio deve includere in se stesso questo vuoto, questo buco interno specificato nel rapporto con le Legge originaria. Non dimentichiamo che il passo per fondare questo rapporto primario, attorno a cui Freud articola le determinazioni dell’amore, il passo che la dialettica freudiana esige, in questo rapporto con l’Altro, è il padre ucciso. È al di là di questo trapasso dell’assassinio originario che si costituisce questa forma suprema dell’amore.
È il paradosso, non del tutto dissimulato, anche se si trova eliso da quel velo agli occhi che sembra accompagnare sempre la lettura di Freud. Questo tempo è ineliminabile, che dopo l’uccisione del padre sorge per lui stesso quell’amore supremo per il padre, che fa propriamente di quel trapasso dell’assassinio originario la condizione della sua presenza oramai assoluta. In questo modo solo la morte può fissarlo in quella specie di realtà, senza dubbio la sola assolutamente perdurante, di essere assente. Non c’è altra fonte per l’assolutezza del comandamento originario.
[Nel] campo comune [tra la domanda all’Altro di una risposta e la domanda dell’Altro] s’istituisce l’oggetto del desiderio in una posizione che abbiamo già visto necessaria al livello soltanto immaginario, cioè in una posizione terza. La sola dialettica del rapporto transitivo con l’altro, nel rapporto immaginario dello stadio dello specchio, vi aveva già insegnato che [tale rapporto] costituiva l’oggetto dell’interesse umano legato al simile, l’oggetto a [è costituito] qui in rapporto a quell’immagine che lo include, che è l’immagine dell’altro al livello dello stadio dello specchio i (a). Ma questo interesse è solo una forma, è l’oggetto di quell’interesse neutro attorno al quale può anche ordinarsi tutta la dialettica della ricerca di Piaget, ch’egli chiama di reciprocità. È da quest’equivalenza, da quest’identificazione all’altro immaginario che s’istituisce come ternario il sorgere dell’oggetto. È solo una struttura insufficiente, parziale e che dunque dobbiamo ritrovare, al termine, deducibile dall’istituzione dell’oggetto del desiderio al livello in cui oggi ve lo articolo qui [al livello della domanda]. Il rapporto con l’Altro non è quel rapporto immaginario fondato sulla specificità della forma generica, perché [qui] questo rapporto con l’Altro vi è specificato dalla domanda, perché la domanda fa sorgere da quest’Altro, l’Altro con una grande A, son essentialité, il suo essere essenziale alla costituzione del soggetto, o per riprendere la forma che si dà sempre al verbo inter-essere, la sua inter-essenzialità al soggetto. Il campo di cui si tratta, non potrebbe in alcun modo essere ridotto al campo del bisogno e di quell’oggetto, che può al limite imporsi per la rivalità dei suoi simili, imporsi come oggetto di sussistenza per l’organismo, perché è questa la china in cui ritroveremo il nostro ricorso alla rivalità ultima. Quest’Altro campo che noi definiamo e per il quale è fatta la nostra immagine del toro, è un altro campo, un campo del significante, campo di connotazione della presenza e dell’assenza, dove l’oggetto non è più oggetto di sussistenza, ma di ex-sistenza del soggetto.
Si tratta alla fin fine di un certo posto di ex-sistenza necessario [per il sorgere] del soggetto, ed è la funzione cui è elevato, portato il piccolo a della rivalità primaria. Per giungere a dimostrarlo abbiamo davanti a noi il cammino che ci resta a percorrere, a partire dalla sommità a cui vi avevo portato l’ultima volta della dominanza dell’altro nell’istituzione del rapporto frustrante. La seconda parte del cammino deve condurci dalla frustrazione a quel rapporto da definire che costituisce il soggetto nel desiderio, e voi sapete che solo lì potremo articolare convenientemente la castrazione. Solo quando questo cammino sarà compiuto sapremo finalmente cosa vuol dire questo posto di ex-sistenza.
L’esigenza di questo posto di ex-sistenza del soggetto induce Lacan a un richiamo, indirizzato al filosofo meno introdotto all’esperienza psicanalitica, in quanto vede questo singolare punto di vista sempre sottratto al suo discorso.
La questione da sollevare è che occorre che il soggetto sia rappresentato, rappresentato nel senso freudiano da un rappresentante rappresentativo, come escluso dal campo in cui egli si trova ad agire come individuo [integrato nel senso di Kurt Lewin] con gli altri. Al livello della struttura occorre che noi arriviamo a render conto del perché è necessario che egli sia rappresentato, da qualche parte, escluso da questo campo, per intervenire in questo stesso campo. Tutti i ragionamenti in cui ci trascina lo psicosociologo, elidono questa necessità che il soggetto sia in due posti topologicamente definiti, cioè in questo campo ma anche essenzialmente escluso da questo campo.
Tutto ciò che arriva a definirsi come apprendimento, e al limite oggettivazione dell’apprendimento, in un pensiero della condotta dell’uomo sottoposta ad osservazione, cioè [che arriva a definirsi come] montaggio, forma un discorso che si tiene e che, fino ad un certo punto rende conto di una molteplicità di cose, salvo di questo che il soggetto non funziona con questo semplice impiego ma in un doppio impiego. (…). È proprio quello che voglio farvi sentire ogni volta che vi riporto le trappole della doppia negazione.
L’identificazione Lezione XV
Ciò con cui noi abbiamo a che fare, il nostro partner che ci richiede, quel che abbiamo davanti a noi nella forma di questo appello e che viene a parlare davanti a noi, [di tutto questo] soltanto ciò che si può definire e scandire come il soggetto, solo questo si identifica. Non può essere detto con proprietà che s’identifichi, nel pensiero di Freud non si introduce il termine di identificazione, che a partire soltanto dal momento in cui si può considerare, a un grado qualunque, la dimensione del soggetto, anche se in Freud non è articolato; questo non vuol dire che l’identificazione vada più lontano del soggetto. La prova sta nel fatto che la prima forma d’identificazione, alla quale ci si riferisce con quella leggerezza di ritornello da pappagallo, è l’identificazione che, ci si dice, incorpora, o ancora, aggiungendo confusione all’imprecisione della prima formula, introietta. Limitiamoci all’incorporazione. Come solo cominciare da questa prima forma d’identificazione quando non c’è data la minima indicazione, il minimo riferimento se non metaforico in tale formula, rispetto a ciò che può voler dire; oppure se si parla d’incorporazione, è perché deve prodursi qualcosa al livello del corpo. Non c’è alcun mezzo di fare intervenire questa incorporazione della prima identificazione, se non tramite una tematica elaborata dalle tradizioni più antiche, mistiche e religiose, sotto il termine di corpo mistico.
L’approccio che ho scelto nella seconda forma d’identificazione, non è casuale ed è perché questa identificazione è sensibile nel modo d’approccio del significante puro, cosa che possiamo cogliere in un modo chiaro e razionale. Una via per entrare in ciò che vuol dire identificazione del soggetto [si riscontra nel fatto] che il tratto unario, una volta messo in evidenza, fa apparire il soggetto come colui che conta, nel doppio senso del termine: colui che conta attivamente, ma anche colui che semplicemente nella realtà conta veramente. Esempio dell’esploratore Shackleton e dei suoi compagni nell’Antartide, che a causa forse dell’alimentazione ma ancor di più a causa di un paesaggio disumano che li disorientava, ogni volta si contavano uno in più di quelli che erano. “Ci si domandava dove era andato a finire il mancante”, il mancante che non mancava se non per il fatto che ogni sforzo di conteggio suggeriva loro che ce n’era uno in più e dunque uno in meno. Si può qui toccare l’apparizione allo stato nudo del soggetto che è solo questo, la possibilità di un significante in più, di un 1 in più, grazie al quale egli stesso constata che ce n’è 1 che manca.
Su questa strada che vi ho fatto percorrere vi potete chiedere che rapporto c’è tra questi due termini con i quali noi abbiamo a che fare in momenti differenti l’Altro e la Cosa.
Sicuramente il soggetto stesso alla fin fine è destinato alla Cosa, ma il suo fato è di passare per questo cammino, che egli non può tracciare se non passando per l’Altro, in quanto l’Altro è marcato dal significante. È nell’al di qua di questo passaggio necessario per il significante che si costituiscono il desiderio e il suo oggetto. Il desiderio può costituirsi solamente nella tensione del rapporto con l’Altro; tensione che si origina dall’avvento del tratto unario, perché questo dal principio e per iniziare cancella tutto della Cosa, qualsiasi cosa tranne quell’1 non rimpiazzabile. Ci troviamo cosi a dover riscrivere la formula di Freud: là dove era la Cosa, l’Io (Je) deve avvenire tramite l’1 in quanto 1, il tratto unario.
[A questo punto, Lacan, cerca di chiarire le formule di cui ha parlato nella lezione precedente], peut-être rien, rien peut-être con sûrement rien, rien de sûr .
Il soggetto per trovare la Cosa s’impegna da principio nella direzione opposta; egli non ha altro mezzo di articolare i suoi primi passi di soggetto che quello di un niente. Di questo niente è importante far sentire la sua dimensione, al tempo stesso metaforica e metonimica del primo gioco significante, perché ogni volta che noi analisti abbiamo a che fare col rapporto del soggetto col niente scivoliamo in due chine: la china comune che tende verso il niente della distruzione è l’incresciosa interpretazione dell’aggressività, considerata come puramente riducibile al potere biologico d’aggressione, per nulla sufficiente quest’ultimo se non per degradazione a supportare la tendenza al niente, quale sorge ad un certo stadio necessario del pensiero freudiano, e proprio poco prima che egli introduca l’identificazione, nell’istinto di morte. L’altra china è l’annientamento che è assimilato alla negatività hegeliana. Il niente che introduce l’istituzione del soggetto, è altra cosa. Il soggetto introduce il niente come tale, da distinguere da qualunque essere di ragione e da qualunque essere immaginario, ma anche dall’ens privativum di Kant.
Quando vi dico che è a partire dalla problematica dell’al di là della domanda che si costituisce l’oggetto come oggetto del desiderio, voglio dire che ciò avviene perché l’Altro non risponde, se non che niente può essere, che il peggio non è sempre sicuro, che il soggetto troverà in un oggetto le virtù stesse della domanda iniziale.
L’esempio d’affinità dell’oggetto con l’Altro si vede manifesto nel famoso brano di Eliante nel Misantropo:
La pallida è comparabile per bianchezza ai gelsomini;
La nera da far paura, una bruna adorabile;
La magra ha un buon profilo come la libertà;
La grassa è un porto pieno di maestà;
La sudicia su se stessa, dotata di poche attrattive;
È messa sotto il nome di bellezza negletta, ecc.
L’oggetto del desiderio si costituisce in rapporto con l’Altro in quanto lui stesso si origina dal valore del tratto unario. Il privilegio non è dell’oggetto ma del valore privilegiato che si dà a ciascun tratto dell’oggetto, anche se assurdo.
L’affinità strutturante di questo cammino verso l’altro, in quanto determina ogni istituzione dell’oggetto del desiderio, la vediamo in Sade.
Lezione XVI
Tra le coordinate fondamentali, quelle in cui devono inserirsi quest’anno i nostri teoremi sull’identificazione, va messo l’accento sulla distanza che separa l’Altro dalla Cosa e anche sul rapporto dell’angoscia con il desiderio dell’Altro.
Se il fatto che il godimento, in quanto godimento della Cosa, è interdetto nel suo accesso di fondo; che è quanto vi ho detto per tutto l’anno del seminario su L’etica. Il piano d’appoggio in cui si costituirà e si sosterrà il desiderio sta nel fatto che questo godimento è sospeso, aufgehoben. Questo è veramente ciò che resta più lontano da ciò che il mondo può dire, dove possiamo vedere che non si può formulare che l’Altro, quando avanziamo verso il desiderio, perché il suo supporto è il significante puro, il significante della legge, si presenta come la metafora di quest’interdizione. Dire che l’Altro è la legge o che è il godimento interdetto è la stessa cosa ed è così che l’Altro al tempo stesso è e non è, è a essere.
Allora state in guardia da colui che fa, e non solo da oggi, dell’angoscia il supporto, il segno e lo spasmo del godimento di un sé ( es ) identificato, esattamente come se non fosse un mio allievo, con quel fondo ineffabile della pulsione, come fondo del cuore, del centro dell’essere, dove propriamente non c’è niente. Ora tutto ciò che io insegno sulla pulsione è propriamente che essa non si confonde con questo se (es ) mitico, che essa non ha niente a che fare con ciò che se ne fa in una prospettiva junghiana. Errore che risiede interamente sull’elisione del fatto, che il rapporto dell’Altro con la Cosa, è antinomico. L’Altro è da essere, dunque non è. Esso ha tuttavia qualche realtà, senza di ciò non potrei nemmeno definirlo come il luogo in cui si dispiega la catena significante. Il solo Altro reale, perché non c’è un Altro dell’Altro, niente che garantisca la verità della legge, il solo Altro reale essendo ciò di cui si potrebbe godere senza la legge. Questa virtualità definisce l’Altro come luogo. La Cosa insomma, elisa, ridotta al suo luogo, ecco l’Altro con una grande A.
L’angoscia passa per il desiderio dell’Altro. Con il nostro toro siamo lì ed è questo che dobbiamo definire passo dopo passo. Intanto diciamo questo che il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro, cosa che sicuramente intende dire qualcosa, ma che evidentemente è tutt’altro di quando si afferma che il desiderio x del soggetto ego è il rapporto con il desiderio dell’Altro, nel senso che il desiderio del soggetto sarebbe in rapporto con il desiderio dell’Altro in un rapporto di limitazione, configurabile in un semplice campo di spazio vitale o meno, concepito come omogeneo, dove verrebbe a limitarsi tramite l’urto. Immagine che sta al fondo di ogni pensiero quando si specula sugli effetti di una congiunzione psico – sociologica. Il rapporto del desiderio del soggetto col desiderio dell’Altro non ha niente a che fare con qualsiasi cosa di intuitivamente supportabile di questo registro. Non c’è comune misura tra i due. Chi ha mai trovato una comune misura tra il proprio desiderio e quello di colui, chiunque sia, con il quale egli abbia a che fare come desiderio. Se non si mette ciò da principio in ogni scienza dell’esperienza, vedi la Fenomenologia dello Spirito di Hegel, allora ci si può permettere tutto, ivi comprese le prediche deliranti su i benfatti della genitalità. Questo vuol dire che non c’è alcun accordo, alcun contratto sul piano del desiderio, che ciò di cui si tratta in quest’identificazione del desiderio dell’uomo con il desiderio dell’Altro è un gioco che si può fare articolando le marionette del fantasma ($ à a), solo supporto possibile di ciò che può essere propriamente una realizzazione del desiderio.
Quando arriveremo ad articolare ciò, vi mostrerò che realizzazione del desiderio può significare solamente essere lo strumento, servire il desiderio dell’Altro, che non è l’oggetto che avete di fronte nell’atto stesso di questa realizzazione, ma un altro che è dietro. Si tratta lì del termine possibile nella realizzazione del fantasma. È solo un termine possibile, e prima di esservi fatti voi stessi lo strumento di quest’Altro situato in un iperspazio, voi avete pure a che fare con dei desideri, con dei desideri reali. Il desiderio esiste, è costituito, se ne va a spasso per il mondo ed esercita i suoi guasti, prima d’ogni vostro tentativo, erotico o non di realizzarlo; ed anche non è escluso che voi lo incontriate come tale, il desiderio dell’Altro, dell’Altro reale come l’ho appena definito. È in questo punto che nasce l’angoscia.
Lezione XIX
Il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro. Questo non vuol dire che ci sia un soggetto in posizione terza, equivalente alla coscienza di sé hegeliana, che opererebbe una mediazione tra i due desideri: il suo proprio e come oggetto quello che ha di fronte a sé, il desiderio dell’Altro. Anche dando il primato a questo desiderio dell’Altro, questa coscienza dovrebbe definire il proprio desiderio in una specie di referenza, di dipendenza dal desiderio dell’Altro. Ciò che invece si tratta di cogliere nella nostra esperienza, è che il soggetto che c’interessa è il desiderio.
Naturalmente tutto questo prende il suo senso solo a partire dal momento in cui articoliamo, il tramite attraverso il quale possiamo situare il desiderio [il tramite cioè della domanda].
Non è che la domanda ci separi dal desiderio, ma è la sua articolazione significante che mi determina e mi condiziona come desiderio.
Questo desiderio non è da situare al di là del linguaggio come per un’impotenza di questo linguaggio, ma è strutturato come desiderio da questa stessa potenza.
Per cogliere sensibilmente questo desiderio, ci occorre qualcosa di sensibile, un’estetica trascendentale, che non sia quella finora accolta, quella alla quale finora si è sottratto il posto del desiderio. Si tratta di superare l’intuizione comune dello spazio e istituire una nuova estetica che sfugga alla preminenza dell’intuizione della sfera, quella che sta alla base di tutta la nostra logica, anche quando non ci pensiamo. L’estetica trascendentale c’interessa perché domina la logica. È questa la ragione per cui alcuni mi dicono: “Davvero non potete dire le cose in modo da farci comprendere ciò che accade in un nevrotico e in un perverso e in che cosa siano differenti, senza passare per i vostri toretti e altri giri”? Io rispondo che fare topologia è indispensabile e per la stessa ragione della logica, perché fare topologia è come fare logica, perché la logica di cui si tratta non è una cosa vuota.
Certo i logici e i grammatici disputano e noi, volendo entrare nel loro campo, non possiamo che evocare con discrezione queste dispute per non perderci dentro. Voglio tuttavia rimarcare che non è indifferente di mettere in primo piano, nella logica, la funzione dell’ipotesi per distinguerla dalla funzione dell’asserzione. Si fa dire per esempio, in un adattamento teatrale, a Ivan Karamazov: “Se Dio non esiste, allora tutto è permesso”. Se ci riportiamo al testo originale, è Aliocha che dice questa frase, ma in questo modo: “Poiché Dio non esiste, allora tutto è permesso”. Questa distinzione c’interessa particolarmente perché dicendo al primo modo, si mantiene l’esistenza di Dio: poiché è chiaro che tutto non è permesso, allora la formula ipotetica impone come necessario che Dio esista. È questa la ragione per cui nel cuore dell’articolazione di un pensiero valido si mantiene l’esistenza di Dio, come un termine senza il quale non ci sarebbe modo di avanzare qualche cosa in cui si possa cogliere l’ombra della certezza. Vedi Cartesio. Non è certo necessario etichettare con il termine d’ateismo il nostro progetto, nelle cui conseguenze per noi è un fatto d’esperienza che c’è del permesso, e non basta dire che c’è del permesso perché c’è l’interdetto. Permesso e interdetto si determinano strettamente l’un l’altro, lasciando aperto un campo che non solo non è da loro escluso, ma che li fa ricongiungere ed è il campo del desiderio. Ognuno può vedere che il desiderio s’istituisce nella trasgressione, ma questo non vuol dire che si tratta di una frontiera, di un limite tracciato. Anzi è al di là della frontiera superata che comincia il desiderio. Che ci sia la frontiera dell’interdetto, non vuol dire nemmeno farla discendere dal cielo e dall’esistenza del significante. Quando vi parlo della Legge, ve ne parlo alla maniera di Freud, vale a dire che se un giorno questa è sorta, senza dubbio è stato necessario che il significante vi mettesse all’istante la sua marca, il suo timbro, la sua forma; ma è tuttavia da qualcosa che è un desiderio originale che ha potuto formarsi il nodo per cui si fondessero insieme la Legge come limite e il desiderio nella sua forma.
Il nodo interno che ci fa confondere, a causa del misconoscimento dell’io, l’identificazione immaginaria dell’io ideale, i (a), con il piccolo a, è quello stesso che ci dà l’impressione che l’Altro ci sia dato sotto una forma immaginaria. Non lo è, perché è di quest’Altro che si tratta quando parliamo dell’oggetto. Di quest’oggetto non si può semplicemente dire che è l’oggetto reale, perché è l’oggetto del desiderio, e potremo definirlo tale solo a partire dal momento in cui avremo compreso che il soggetto è il desiderio.
Ritorniamo al nostro fantasma e agli elementi che lo compongono: ($ à a). Il piccolo a non si può isolarlo senza il suo correlativo $, per il fatto che l’oggetto del desiderio, il piccolo a, nel fantasma è correlativo di quella specie di fading, di svanimento simbolico, che io articolo come l’esclusione determinata dalla dipendenza del soggetto dall’uso del significante. È perché il significante deve raddoppiare il suo effetto se vuole designare sé stesso, che il soggetto sorge come esclusione dal campo stesso che lo determina, non essendo allora né quello che è designato né quello che designa, ma con quest’eccezione essenziale, che questo si produce soltanto in rapporto con il gioco di un oggetto, dal principio come alternanza di una presenza e di un’assenza.
Ciò che vuol dire formalmente la congiunzione di $ e di piccolo a, è che nel fantasma, al livello dell’identificazione al tratto unario, il soggetto, davanti ad a si fa radicalmente e formalmente – a, assenza di a e nient’altro. L’identificazione allora è data solo nel prodotto di – a ( cioè $ ) per a; dove il – a 2 = 1 che ne risulta introduce al simbolo Ö -1.
Non dimentichiamo che il desiderio inconscio di cui dobbiamo render conto si trova nella ripetizione della domanda, ma come Freud modula per noi fin dall’origine è il desiderio che motiva la domanda, in quanto per noi il desiderio è altra cosa dalla tendenza. Noi non ci contentiamo della referenza opaca all’automatismo della ripetizione, il desiderio noi lo abbiamo perfettamente identificato e si tratta della ricerca, al tempo stesso necessaria e condannata, d’una volta unica, qualificata, fissata come tale da quel tratto unario, quello stesso che non può ripetersi senza essere sempre un altro. Allora, in questo movimento, ci appare la dimensione per cui il desiderio è quello che supporta il movimento, senza dubbio circolare, della
domanda sempre ripetuta, ma della quale può essere concepito un certo numero di ripetizioni che conclude qualcosa ed è ciò che illustra l’uso della topologia del toro. Il movimento a bobina della ripetizione della domanda si chiude definendo un altro anello che si completa da questa ripetizione stessa e che designa l’oggetto del desiderio. È per il fatto di essere preso nel movimento ripetitivo della domanda, nell’automatismo della ripetizione, che l’oggetto diviene oggetto del desiderio.
Prendiamo il seno come significante della domanda orale, e a partire dal momento in cui il seno reale diventa, non oggetto di nutrimento, ma oggetto erotico, mostrandoci una volta di più che il significante possa significare se stesso. È propriamente perché l’oggetto diviene riconoscibile come significante d’una domanda latente che esso prende valore di un desiderio che è di un altro registro. La dimensione libidica è data proprio da questo. Il fattore di questa trasmutazione è la funzione del fallo.
Il fallo non è mai tanto là, che quando proprio là è assente: ecco il cardine, il punto girevole della costituzione d’ogni oggetto come oggetto del desiderio.
Abbiamo cominciato a occuparci del fallo a proposito dei problemi della sessualità femminile, dove si coglie la differenza di struttura tra domanda e desiderio. È perché il fallo deve essere domandato dove non è, cioè nella madre, alla madre, tramite la madre, per la madre, che passa da lì il cammino normale per il quale può giungere a essere desiderato dalla donna. Ammesso che esso possa essere costituito come oggetto del desiderio, l’esperienza analitica mette l’accento sul fatto che occorre che il processo passi per una domanda primitiva, con tutto ciò che essa comporta di assolutamente fantasmatico, d’irreale, contrario alla natura, una domanda strutturata che continua a veicolare le sue marche al punto che essa appare inesauribile e che l’accento in ciò che dice Freud non è da porre su quanto basta perché Jones lo intenda: che l’uomo e la donna siano stati fatti l’un per l’altra come il filo per l’ago. Questo vuol dire che è nella misura in cui il fallo può continuare a restare indefinitamente oggetto di domanda a chi non può darlo su questo piano, che propriamente sorge tutta la difficoltà perché giunga a quel che sembrerebbe tuttavia naturale che il fallo lo fosse dal principio, oggetto del desiderio.
È la porta d’entrata, una porta d’entrata difficile e che torce il rapporto con esso, per la quale questo fallo entri, anche là dove sembri l’oggetto più naturale, nella funzione d’oggetto.
Nello schema topologico dell’otto rovesciato [che illustra come], per il fatto che il significante si raddoppi, è chiamato alla funzione di significare se stesso, si produce
un campo d’esclusione per il quale il soggetto è rigettato nel campo esterno.
Anticipo e proferisco che il fallo nella sua funzione radicale è solo significante, ma che per quanto egli possa significare se stesso è innominabile in quanto tale. Se è nell’ordine significante, perché è un significante e nient’altro, può essere posto senza differire da se stesso. Come concepirlo intuitivamente? Diciamo che è il solo nome che abolisca tutte le altre possibilità di designare con un nome e che è per questo che è indicibile. Non è indicibile perché lo chiamiamo fallo, ma non si può al tempo stesso dire fallo e continuare a designarlo con un nome di altre cose.
Lezione XX
[Il disegno del cross-cap di Lacan mostra una semisfera in basso, sormontata da una forma che appare come segnata in due lobi da] una linea di penetrazione, grazie alla quale … in alto la parete passa per penetrazione nella parete opposta e ritorna in avanti. [I due lobi non sono staccati ma sono dati dalla compenetrazione delle superfici lungo la linea di penetrazione e sono evidenziati nel disegno dal percorso a farfalla di un vettore, che passa dall’esterno all’interno per ritornare sull’esterno e quindi di nuovo all’interno] mostrando la difficoltà di definire la distinzione interno – esterno, anche quando si tratta di una superficie chiusa, di una superficie senza bordo.
La linea di penetrazione deve essere da voi ritenuta nulla e non avvenuta; anche se alla lavagna non si può materializzare [la compenetrazione] senza fare intervenire questa linea di penetrazione, perché l’intuizione spaziale ordinaria esige che la si mostri, mentre la speculazione non ne tiene conto, per il fatto che la si può far scivolare indefinitamente. Non c’è nulla dell’ordine del taglio: non c’è possibilità di passaggio. Bisogna rinunciare ad ogni considerazione di carattere metrico. Topologicamente la natura dei rapporti strutturali che costituiscono la superficie è presente in ogni punto, la faccia interna si confonde con la faccia esterna per ciascuno dei suoi punti e delle sue proprietà.
Un significante ha sempre, come luogo, una superficie, il grafo stesso, di primo acchito, esige una superficie; infatti, ammesso che si possa avanzare l’obiezione che una pietra elevata, una colonna greca è un significante e che per tanto questo avrebbe un volume, non è poi così sicuro che si possa introdurre la nozione di volume prima di aver definito tutto ciò che riguarda la nozione di superficie. Prova ne è che non si può cogliere la nozione di volume se non a partire dall’involucro. Ogni pietra elevata in questo senso ci ha interessato solo per ciò che avvolge. Prima ancora d’essere volumi, le architetture sono costituite dal fatto, di sistemare delle superfici attorno a un vuoto. Allora le pietre elevate servono a costituire degli allineamenti attorno a un buco.
Un significante, nella sua essenza più radicale, può essere concepito come taglio in una superficie.
Perché il significante nella sua incarnazione corporea, cioè vocale, si è sempre presentato a noi essenzialmente come discontinuo? [Così] non avremmo bisogno della superficie [per costituire il significante], in quanto la discontinuità lo costituisce. L’interruzione nel successivo fa parte della sua struttura.[Alla ] dimensione temporale del funzionamento della catena significante che io ho abbordato da principio come successione, fa seguito la scansione, che introduce un elemento in più rispetto alla divisione [prodotta] dall’interruzione modulante. La scansione introduce la fretta che [a suo tempo] ho inserito come fretta logica. È un vecchio lavoro Il tempo logico. Il passo che tento di farvi superare ha già cominciato a essere tracciato, è quello in cui si annoda la discontinuità con la differenza che è l’essenza del significante. Ciò attorno a cui ruota la funzione del significante, è che anche a ripetere lo stesso, lo stesso, per il fatto di essere ripetuto, s’inscrive come distinto. Dove sta l’interpolazione di una differenza? Essa risiede solamente nel taglio, ed è qui che c’interessa l’introduzione della dimensione topologica al di là della scansione temporale; oppure risiede in qualcosa d’altro che chiameremo la semplice possibilità di essere differente, l’esistenza della batteria differenziale che costituisce il significante, grazie alla quale non possiamo confondere alla radice del fenomeno sincronia con simultaneità. La sincronia fa sì che il significante riappare distinto da ciò che ripete [pur] riapparendo lo stesso; sicché ciò che può essere considerato distinguibile è l’interpolazione della differenza, perché non possiamo porre l’identità di A è A come fondamento della funzione significante, come dire che la differenza è nel taglio, o nella possibilità sincronica che costituisce la differenza significante. In ogni caso ciò che si ripete come significante è differente solo per il fatto di poter essere inscritto.
Ciò non toglie che in ciò che può essere inscritto innanzitutto c’interessa la funzione del taglio. Ed è qui che la nozione di superficie topologica deve essere introdotta nel nostro funzionamento mentale, perché solo lì prende il suo interesse la funzione del taglio. L’iscrizione che riconduce alla memoria è un’obiezione da respingere. La memoria che interessa noi analisti è da distinguere dalla memoria organica, quella che risponderebbe alla stessa suzione del reale con lo stesso modo che ha l’organismo per difendersene, quella che mantiene l’omeostasi, perché l’organismo non riconosce come differente lo stesso che si ripete. La memoria organica même-orise registra in memoria lo stesso. La nostra memoria è altra cosa, essa interviene in funzione del tratto unario che marca l’unica volta e ha per supporto l’inscrizione.
Lezione XXII
L’esperienza analitica ci conduce attraverso gli effetti incarnati di questo fatto del primato del significante sul soggetto.
Il significante determina il soggetto è questo che vuol dire necessariamente esperienza analitica. Il significante determina il soggetto e il soggetto ne prende la struttura, come ho cercato di mostrarvi nel grafo. Quest’anno a proposito dell’identificazione tento di farvi seguire intimamente il legame del significante con la struttura soggettiva, introducendo delle formule topologiche che ci portano a considerare queste superfici come delle strutture, nelle quali la struttura è presente in ciascuno dei punti di cui si compongono. Il significante è taglio e da questo occorre far dipendere il soggetto e la sua struttura. Questo è possibile se ammettiamo che il soggetto ha la struttura della superficie, almeno una superficie topologicamente definita. Possiamo spiegarlo con la superficie del nastro di Moebius che, tagliato in un certo modo, diventa un’altra superficie; se pratichiamo, infatti, un taglio mediano lungo tutto il nastro, otteniamo un altro nastro due volte ritorto su se stesso. Allora, al contrario di quello che possiamo pensare che sia la superficie a permettere il taglio, possiamo concepire il taglio come generante la superficie. [Così possiamo dire che se il significante determina il soggetto, essendo il significante taglio ed avendo il soggetto la struttura della superficie, il taglio genera la superficie]. Qui possiamo vedere il punto d’entrata, d’inserzione del significante nel reale e lo possiamo constatare nella prassi umana dove, è perché il reale ci presenta delle superfici naturali, che il significante vi può entrare.
Il taglio, effetto del significante, è stato per noi nell’analisi fonematica del linguaggio, quella linea temporale, più precisamente di significanti che si succedono, che vi ho abituati a chiamare finora catena significante. Che cosa succede adesso se v’invito a considerare la linea stessa come taglio originale? Se la linea stessa è taglio, ciascuno dei suoi elementi sarà dunque una sezione di taglio, ed è questo che introduce quell’elemento vivo del significante che ho chiamato otto interno. La linea s’interseca. L’interesse di questo sta nel fatto che il taglio portato sul reale vi manifesta ciò che è la sua caratteristica e la sua funzione; perché ciò che il reale introduce nella nostra dialettica, contrariamente all’uso che se n’è fatto finora, per cui il reale è servito a definire il diverso, nella funzione originale che vi propongo il reale, è ciò che ritorna sempre allo stesso posto. Questo vuol dire che la sezione di taglio, detto altrimenti il significante, essendo sempre differente da se stesso (A non è mai identica ad A), non c’è alcun mezzo di far apparire lo stesso se non dal lato del reale. Detto altrimenti il taglio come taglio soggettivo può sapere di essersi chiuso, di ripassare per se stesso, solo perché il reale, perché distinto dal significante, è lo stesso. In altri termini solo il reale chiude il taglio. Una curva chiusa, è il reale rivelato, ma come potete vedere nell’otto interno, occorre che il taglio s’intersechi. Il taglio [dell’otto interno cioè] è un tratto che s’interseca ed è solo dopo essersi chiuso, sul fondamento che tagliandosi ha incontrato il reale, che questo gli consente di connotare come lo stesso ciò che si trova rispettivamente nel primo e nel secondo anello.
Tutta l’incertezza, l’ondeggiamento d’ogni costruzione identificativa sta nel ritenere che occorre attendere lo stesso perché il significante consista, come lo si è sempre creduto, senza soffermarsi sufficientemente sul fatto fondamentale che il significante, per generare la differenza da ciò ch’esso significa originariamente, occorre che almeno una volta si ripeta, e questa ripetizione del significante non è nient’altro che la forma più radicale dell’esperienza della domanda. Ciò che il significante significa originariamente, quella volta lì, di fatto, non potrebbe ripetersi, ma obbliga sempre il soggetto a ritrovare quella volta lì e questo gli permette di adempiere la sua funzione significante. Il fatto è che il significante è incarnato tutte le volte che la domanda si ripete, perché se non fosse che la domanda si ripete vanamente, non ci sarebbe significante. Se la domanda avesse ciò che tenta di stringere nel suo anello, non ci sarebbe domanda. Non ci sarebbe bisogno di domanda se il bisogno fosse soddisfatto. È qui che si genera il nodo radicale che ci fa rovesciare l’affermazione secondo la quale c’è significante solo se gli è supposta una superficie, nella sintesi del taglio che genera la superficie ed è questo taglio che dà alla superficie le sue varietà e la sua ragione costituente. Questo ci fa omologare quel primo rapporto della domanda con la costituzione del soggetto, in ciò che si presenta come il suo contorno nello spazio immaginato del toro, generato in quei giri e in quelle ripetizioni. È un ritorno alle origini che permette di strutturare ed esemplificare un certo tipo di rapporto del significante con il soggetto e di situare nell’opposizione della funzione D della domanda con quella di a, l’oggetto del desiderio, di situare la scansione della domanda. Nelle formule del grafo D, la domanda, non è mai congiunto con a, l’oggetto del desiderio. Alla maniera del fantasma, $ è congiunto con D, per rappresentare il tesoro del significante allo stadio dell’enunciazione, si tratta della pulsione (Trieb). Così io formalizzo che la prima modificazione del reale in soggetto sotto l’effetto della domanda è la pulsione. E se la pulsione non avesse già quest’effetto della domanda, quest’effetto del significante, non potrebbe articolarsi in uno schema così manifestamente grammaticale, vedi Triebe und Triebeschicksale, Pulsioni e loro destini di Freud (da tradurre Pulsioni e loro vicissitudini).
L’applicazione del significante alla superficie del toro è la forma più semplice di ciò che può prodursi in una sequenza all’infinito di giri che si avvolgono a bobina, proprio come nella bobina della dinamo, perché nel corso di questa ripetizione è compiuto un giro attorno al buco centrale.
Ma nella forma in cui la vedete qui disegnata, la più semplice, il giro è compiuto in modo eguale di modo che non s’interseca. Sottolineo che qui si tratta di semplice taglio. Un taglio così fatto non produce assolutamente niente e se lo praticate su di una camera d’aria [seguendo il giro con un paio di forbici], vedrete alla fine la camera aperta in un certo modo trasformata in una superficie due volte ritorta su se stessa, ma non tagliata in due. Questo ci permettere di cogliere, in un modo che caratterizza radicalmente la fuga, l’assenza di qualunque accesso, al livello della domanda, alla possibilità di cogliere il suo oggetto.
Il vuoto che avvolge la domanda in ogni suo giro della ripetizione, manca sempre qualcosa che scivola, che può essere evocato dalla metonimia di uno slittamento continuo, ma non è evocato dal vuoto contornato dalla singola domanda. Questo qualcosa mancato sempre dalla domanda, in ciascuno dei suoi giri, la forma della superficie del toro permette soltanto di evocarlo in quel niente del buco centrale, che è contornato da tutti i giri della ripetizione; [ ma a questo livello non c’è un taglio che permetta di isolare e cogliere l’oggetto del desiderio come è possibile ad un altro livello, in un’altra forma topologica].
La struttura topologica del toro implica invece la possibilità di una concatenazione con un toro complementare, … che nella nostra trasposizione significata dall’esperienza clinica, la domanda del soggetto corrisponde all’oggetto a dell’Altro e che l’oggetto a del soggetto diviene la domanda dell’Altro.
Lezione XXIV
Le figure di sopra corrispondono al taglio semplice, cioè di un solo giro, del cross-cap, in quanto il piano proiettivo non può tollerare il doppio taglio, otto rovesciato senza essere diviso. Quest’apertura tuttavia è interessante perché ci permette di visualizzare la funzione del punto.
Quando si realizza il doppio taglio si separa dalla superficie principale un pezzo centrale che si porta con se il punto, che io rappresento nelle mie figure con un piccolo buco, perché questo punto non è un punto come gli altri, perché il pezzo che si stacca è costituito da due lembi sovrapposti e il punto si situa nel passaggio da un lembo all’altro. Voi avete qui una specie di piano che ruotando a sinistra viene in qualche modo a intersecare se stesso secondo una linea che passa dietro. Avete dunque così due orecchie, una lamella davanti e una lamella indietro e il piano si attraversa secondo una linea strettamente limitata a un punto. La sua forma un po’ obliqua, ritorta è divertente perché è sorprendente l’analogia con delle forme che riscontriamo in natura.
La natura sembra, in qualche modo, aspirata da queste strutture, particolarmente in organi significativi come quelli degli orifizi del corpo. A questi orifizi quando mostrano una certa somiglianza, potremmo agganciare una specie di considerazione di ricollegamento di questo punto alla scienza della natura. L’analogia sorprendente di molti di questi disegni da me fatti con le figure che trovate a ogni pagina dei libri d’embriologia merita pure che soffermiamo la nostra attenzione. Quando considerate ciò che accade nell’uovo dei serpenti o dei pesci, perché molto vicini allo sviluppo dell’uovo umano, osserverete l’apparizione sulla placca germinativa di ciò che si chiama la linea primitiva, che termina pure in un punto, il nodo di Hensen legato ad una specie di correlazione con la formazione del tubo neurale, tubo che viene incontro a se stesso tramite un processo di ripiego dell’ectoderma. È qualcosa che dà l’idea della formazione d’un toro, perché ad un certo stadio questo tubo neurale resta aperto ai due lati come una trombetta. Invece la formazione del canale cordale che si produce al livello di questo nodo di Hensen, con un modo di propagarsi lateralmente, dà l’idea che lì si produce un processo di incrocio, il cui aspetto morfologico ricorda la struttura del piano proiettivo. Man mano che lo sviluppo va avanti si constata che la funzione della linea primitiva si completa in una regressione posteriore e che proprio qui si produce un’apertura in avanti, cioè ciò che mette in comunicazione la parte terminale del tubo digestivo con la parte terminale del tubo neurale. Insomma quel punto altamente significativo per congiungere l’orifizio cloacale, qell’orifizio così importante nella teoria analitica, con qualcosa che si trova nella parte inferiore della formazione codale.
Il doppio taglio produce nel cross-cap una divisione della superficie in
1.- Una superficie di Moebius, cioè una superficie ad un solo lato che conserva solo una parte delle proprietà della superficie chiamata cross-cap, è propriamente quella parte particolarmente interessante ed espressiva che consiste nella proprietà unilatera. Si tratta di una superficie levogira, specularizzabile, la cui immagine allo specchio non gli potrebbe essere sovrapposta in quanto è strutturata da una dissimmetria fondamentale.
2.- La parte centrale, al contrario, isolata dal doppio taglio, essendo quella che manifestamente porta con sé la vera struttura di tutto l’apparato chiamato cross-cap, attraversa se stessa secondo una certa linea che si ferma in un punto. È questa linea e soprattutto questo punto che danno il suo significato privilegiato alla forma a doppio giro di questo taglio, che ci dà una rappresentazione schematica della relazione del soggetto come taglio di a, cosa che non potremmo cogliere al livello della struttura del toro. È proprio la relazione del soggetto come taglio di a che ci permette di articolare schematicamente la struttura del desiderio, che ci permette insomma di concepire la struttura del fantasma.
Questa relazione dei due termini del fantasma, del soggetto barrato con l’oggetto del desiderio, è la vera funzione immaginaria. Dico termini, perché ce n’è due: S barrato e oggetto piccolo a sono legati dalla funzione del taglio. La funzione dell’oggetto del fantasma, in quanto è il termine della funzione del desiderio, è una funzione nascosta. Ciò che vi è di più efficiente, di più efficace nella relazione con l’oggetto è marcata da una massima velatura. Si può dire che la struttura libidica, in quanto è marcata dalla funzione narcisistica, è ciò che per noi ricopre e maschera la relazione con l’oggetto. È in quanto la relazione narcisistica, narcisismo secondario, la relazione con l’immagine del corpo tale e quale, è legata da qualcosa di strutturale a questa relazione con l’oggetto nel fantasma fondamentale, che essa prende tutto il suo peso. Questo qualcosa di strutturale di cui parlo, è solo una relazione complementare, perché la relazione del soggetto marcato dal tratto unario ha una relazione indiretta con l’oggetto nel fantasma fondamentale, poiché trova un certo appoggio ingannevole e di errore nell’immagine del corpo, costitutiva dell’identificazione speculare. Ci sono dunque due immaginari, il vero e il falso, e il falso si sostiene solo in quella specie di sussistenza di tutti i miraggi del mé-connaître (disconoscere per riconoscere l’io): il soggetto si disconosce nella relazione allo specchio. Questa relazione dello specchio, per essere capita, dev’essere situata sulla base di quella relazione con l’Altro che è il fondamento del soggetto, in quanto il nostro soggetto è il soggetto del discorso, è il soggetto del linguaggio. Noi vediamo che, a un certo punto, quando si situa questo rapporto del soggetto barrato come taglio dell’oggetto piccolo a, in rapporto alla deficienza fondamentale dell’Altro, come luogo della parola, tutto arretra, tutto si cancella nella funzione significante, davanti all’ascesa, davanti all’irruzione di quell’oggetto, Il significante di A barrato, il testimone universale che fa difetto e che, a un momento dato, si rivela falso testimone è la sola risposta definitiva al livello dell’enunciazione. Se situiamo la funzione di a in questo punto di mancamento dell’Altro, mostriamo il supporto che il soggetto trova in questo oggetto piccolo a, l’oggetto che noi abbiamo di mira nell’analisi, che non ha niente in comune con l’oggetto dell’idealismo classico, che non ha niente in comune con l’oggetto del soggetto hegeliano, allora articoliamo nel modo più preciso questo a al punto di carenza dell’Altro, che è anche il punto in cui il soggetto riceve da questo Altro, come luogo della parola, la sua marca principale, quella del tratto unario, quella che distingue il nostro soggetto dalla conoscenza trasparente del pensiero classico.
Per quanto sia la zona più velata, è quella verso la quale noi procediamo (…) si tratta di qualcosa che emerge dal fantasma, qualcosa che il soggetto fomenta, tenta di produrre nel posto cieco, nel posto mascherato di cui quel pezzo centrale dà lo schema.
Ho già mostrato che la vera mira nel fantasma del nevrotico ossessivo sia questo tentativo sempre rinnovato e sempre impotente di distruzione dell’immagine speculare, ch’egli sente come ostacolo alla realizzazione del fantasma fondamentale. Vi ho mostrato che questo chiarisce benissimo ciò che accade al livello del fantasma sadiano… è nell’ingiuria alla natura che Sade tenta di definire l’essenza del desiderio umano. Tento di introdurne la dialettica. La nozione di conoscenza può essere conservata soltanto fuori dal campo umano. La natura sa quello che fa, si conosce, ed ha le sue preferenze nella scelta dei materiali per le sue creazioni. Altri, di bizzarri, ne lascia curiosamente da parte, perché noi possiamo trovarli nel nostro sviluppo della scienza, di modo che questo sviluppo risulta sempre più estraneo a ogni mezzo che sia connaturale al campo della natura. Non è propriamente questo che rende attuale il nostro avanzamento nella struttura del desiderio? Il nocciolo del desiderio inconscio è il polo magnetico che costituisce il centro d’attrazione e d’orientamento in rapporto a tutti i paradossi generati nell’uomo dal disconoscimento dell’io. Il desiderio umano è fondamentalmente una funzione a-cosmica. Questo spiega perché quando fomento quelle immagini plastiche, le figure topologiche che promuovo, può sembrarvi che riporti alla luce le antiche tecniche immaginarie come quelle della sfera di Platone. Allora potreste dire questo [in contrapposizione] che questo piccolo punto doppio, questo punzone ci mostra che lì è il campo in cui si cerne ciò che è la vera molla del rapporto tra il possibile e il reale. Ciò che ha costituito il fascino, tutta la seduzione a lungo perseguita della logica classica, il vero punto d’interesse della logica formale, quella aristotelica, è ch’essa suppone ed esclude al tempo stesso ciò che è il suo vero punto cardine, cioè quel punto dell’impossibile che è il desiderio. Voi potete allora pensare che tutto ciò che vi sto spiegando sia il seguito del discorso precedente, ma è solo un trucco del divino (trucs à théo). Certo ci sciacquiamo la gola con la romantica affermazione d’effetto sicuro che Dio è morto, ma c’è dio e dio. Ce n’è che sono del tutto reali e avremmo torto a disconoscerne la realtà. Il dio che qui è in causa e di cui non possiamo eludere il problema che ci riguarda, facendo eco a Bechett che un giorno l’ha chiamato Godot, perché non chiamarlo con il suo vero nome, l’Essere supremo? Se mi ricordo bene, la buona amica di Robespierre aveva proprio questo come nome proprio: credo che si chiamasse Chatherine Théo [un nome del padre]. È certo che tutta una parte della delucidazione analitica, per dirla tutta la storia del padre in Freud, è il nostro contributo essenziale alla funzione del théo in un certo campo, precisamente in questo campo che trova i suoi limiti sul bordo del doppio taglio, in quanto è quello che determina i caratteri strutturanti, il nocciolo fondamentale del fantasma nella teoria come nella pratica.
Se si può articolare qualcosa, che mette in equilibrio i domini del théo, che si rivelano poi non essere così totalmente ridotti, né riducibili perché ce n’occupiamo tanto, tranne che da qualche tempo ne perdiamo l’anima, il succo e l’essenziale. Non si sa più che dire, questo padre sembra riassorbirsi in una nube sempre più remota e nel contempo lasciare la nostra pratica singolarmente in sospeso.
Che ci sia un correlativo storico io credo non sia superfluo evocarlo quando si tratta di definire ciò con cui abbiamo a che fare. È tempo di farlo perché in mille forme concretizzate, articolate, cliniche o pratiche, nell’evoluzione della nostra pratica si delinea un certo settore che è distinto dalla relazione con l’Altro, grande A, come [quella] fondamentale, come strutturante tutta l’esperienza, di cui abbiamo trovato i fondamenti nell’inconscio.
Ma il suo altro polo ha soltanto il valore che poco fa ho chiamato complementare, valore complementare senza il quale noi vaghiamo, voglio dire che senza [quel valore di complementare] noi ritorniamo, come in una flessione, un’abdicazione, a quel qualcosa che è stata l’etica dell’era teologica, quella di cui vi ho fatto sentire le origini, mantenenti certamente tutto il loro pregio, tutto il loro valore, in quella freschezza originale che gli hanno serbata i dialoghi di Platone. Che abbiamo visto dopo Platone se non la promozione di ciò che ora si perpetua nella forma polverosa di quella distinzione, che è veramente uno scandalo si possa ancora trovare sotto la penna di un analista, dell’io-soggetto e dell’io-oggeto. Allora parlatemi del cavaliere e del cavallo, del dialogo dell’anima col desiderio. Ma è propriamente di questo desiderio e di quest’anima che si tratta, quel rinvio del desiderio all’anima nel momento per l’appunto in cui si tratta solo di desiderio, in breve tutto ciò che l’anno scorso vi ho mostrato nel transfert.
Si tratta di vedere quella chiarificazione essenziale che noi vi possiamo apportare. Il fatto è che il desiderio non sta da un lato. Se ha l’aria di essere quell’indocile che Platone descrive in modo patetico, così commovente, e che l’anima superiore è destinata a dominare, a catturare, certo che c’è un rapporto, ma questo rapporto è interno e dividerlo vuol dire propriamente lasciarsi andare a un inganno, che consiste nel fatto che quest’immagine dell’anima altro non è che l’immagine del narcisismo secondario, come l’ho definito poco fa e sul quale tornerò, che funziona soltanto come via d’accesso, orientata, al desiderio. È certo che Platone non lo ignorava, anzi quel che rende la sua impresa perversa è che ce lo maschera. È questa la ragione per cui vi parlerò del fallo nella sua doppia funzione, quella che ci permette di vederlo come il punto comune che manda al rovescio ciò che converge (nell’otto interno c’è un punto comune di convergenza e di reversione per il quale devono passare i due giri del doppio anello per completarsi) al livello del termine S barrato del fantasma e al livello di piccolo a, che esso autentifica per il desiderio.
Ecco dove sta il paradosso che rappresenta questa immagine: solo questo punto assicura alla superficie così ritagliata il suo carattere di superficie unilatera, facendo veramente di $, S barrato, il taglio di piccolo a – ma non andiamo troppo in fretta. Piccolo a, lui sicuramente è il taglio di S barrato. Il genere di realtà che noi abbiamo di mira in quest’oggettualità, o questa oggettività, che siamo i soli a definire, per noi veramente è ciò che unifica il soggetto.
All’apice del suo omaggio appassionato a Socrate, Alcibiade lo paragona ad una scatola: una di quelle scatole meravigliose che sono da sempre esistite, dovunque l’uomo ha saputo costruire degli oggetti, figure di ciò che per lui è l’oggetto centrale, quello del fantasma fondamentale. Alcibiade dice a Socrate ch’essa contiene l’agalma.
Cominciamo ad intravedere che questo agalma è qualcosa che ha un rapporto con questo punto centrale che dà la sua dignità e l’accento all’oggetto piccolo a. Le cose infatti sono da rovesciare al livello dell’oggetto. Questo fallo, se è paradossalmente costituito in modo tale che bisogna fare sempre attenzione a ciò che è la funzione avvolgente e alla funzione avvolta, io credo che è al cuore dell’agalma che Alcibiade cerca ciò a cui fa appello, a quel punto in cui il Simposio si conclude, quel qualcosa che solo noi siamo in grado di leggere. Ciò che cerca, ciò davanti a cui si prosterna è Socrate, ma come desiderante di cui vuole la confessione. Al cuore dell’agalma, ciò che cerca nell’oggetto si manifesta come il puro eron, perché egli non vuol dire che Socrate è amabile, ma ci vuol dire che la cosa che più desidera al mondo è di vedere Socrate desiderante. Questa implicazione la più radicalmente soggettiva al cuore dell’oggetto stesso del desiderio, …, la puntualizzeremo nel modo più preciso vedendo che, ciò che l’organizza, è la funzione puntuale, centrale del fallo. Lì il nostro vecchio incantatore, putrescente o meno, ma certamente incantatore, colui che ne sa qualcosa sul desiderio, manda il nostro, Alcibiade a quel paese dicendogli di occuparsi della sua anima, del suo io, di diventare ciò che non è, un nevrotico di secoli più tardi, un figlio del Théo.
Che cos’è questo rigetto da parte di Socrate di un essere così ammirevole come Alcibiade? Per quanto concerne l’agalma, manifestamente è lui che lo è, nel modo più manifesto e più puro Alcibiade il fallo lo è. Semplicemente nessuno può vedere di chi è il fallo. Per essere il fallo a quello stadio lì bisogna avere una certa stoffa. Egli non ne mancava e il fascino di Socrate indubbiamente resta senza presa su Alcibiade. Il Simposio passa nei secoli che l’anno seguito attraverso l’era teologica fino a questa forma enigmatica ed ermetica, tuttavia ci indica al punto di partenza che Alcibiade, manifestando il suo appello del desiderante al cuore dell’oggetto privilegiato, non fa altro che apparire in una posizione di seduzione sfrenata in rapporto a qualcuno che ho chiamato il coglione fondamentale, che Platone ha connotato ironicamente col nome proprio del bene stesso, Agatone. Il bene supremo non ha altro nome nella sua dialettica.
Lezione XXV
Ci avviciniamo al termine di quest’anno e il mio discorso sull’identificazione non avrà potuto esaurire il suo campo, per quanto questo non mi dia il sentimento di sentirmi in difetto con voi. Certo qualcuno all’inizio s’inquietava, non senza fondamento, che il tema da me scelto sembrava che permettesse di divenire lo strumento anche per noi del tutto è nel tutto. Al contrario ho tentato di mostrare quanto di rigore strutturale si allaccia al tema dell’identificazione, partendo dal secondo modo d’identificazione distinto da Freud, quello che senza falsa modestia ritengo di aver reso per voi inconcepibile senza la modalità della funzione del tratto unario.
Il campo in cui sono, dopo che ho introdotto il significante dell’otto interno, è quello del terzo modo d’identificazione, quell’identificazione in cui il soggetto si costituisce come desiderio; ma in questo campo, [già] tutto il nostro discorso anteriore ci evitava di disconoscere che il campo del desiderio per l’uomo è concepibile solo a partire dal rapporto con il grande Altro. [Con l’introduzione dell’otto interno è evidente che] il desiderio dell’uomo si situa nel luogo dell’Altro e vi si costituisce come quel modo di identificazione originale che Freud c’insegna a separare empiricamente nella forma che ci è data nella nostra esperienza clinica e che si manifesta nella costituzione del desiderio dell’isterica. Dire che, “c’è un’identificazione ideale e poi c’è un’identificazione del desiderio al desiderio”, può servire ad una prima sgrossatura della questione. Il testo di Freud non lascia le cose lì, in quanto nelle principali opere della sua terza topica ci mostra il rapporto dell’oggetto, l’oggetto del desiderio, con la costituzione dell’ideale stesso. Egli lo mostra sul piano dell’identificazione collettiva, che è una specie di punto di concorso dell’esperienza, per cui il mio tratto unario si riflette nell’unicità del modello, preso come quello che funziona [anche da terzo tipo in quanto accomuna] nella costituzione di quell’ordine di realtà collettiva che è la massa con una testa, il leader. [Si trattava a quel momento] di un problema locale, ma che offriva a Freud il terreno migliore, nel momento in cui elaborava la terza topica, per cogliere qualcosa che … nel concreto per lui radunava le tre forme d’identificazione, poiché pure la prima è lì in quel modello dell’identificazione al leader della folla, implicata senza esserlo del tutto, senza esservi inclusa interamente nella sua dimensione totale. La prima forma d’identificazione, anche la più misteriosa, benché sia in apparenza la prima portata alla luce dalla dialettica analitica, l’identificazione al padre resterà sul bordo al termine del nostro sviluppo di quest’anno.
Non abbiamo nemmeno pensato di far entrare quest’anno nel campo del nostro interesse l’identificazione al padre, per non dover esservi assorbiti interamente, perché mette in questione qualcosa di legato alla tradizione di un’avventura a tal punto storica da poterla identificare alla stessa storia. Prendere dal principio per oggetto la prima forma d’identificazione, sarebbe stato ingaggiare interamente il nostro discorso sull’identificazione nei problemi di Totem e Tabù, l’opera animatrice per Freud, che si può dire sia per lui die Sache selbst, la cosa stessa, l’opera, quella cioè in cui si trova esteriorizzato essenzialmente tutto ciò che merita di sussistere di un soggetto che sta tutto nella via da lui tracciata da un’opera, che resta il fenomeno in movimento della coscienza. Sotto quest’angolazione, se dovessimo limitare l’eredità di Freud a un’opera, avremmo torto a non identificarla a Totem e tabù.
Ciò che ha costituito l’apparato operatorio nel discorso sull’identificazione di quest’anno è di un’importanza decisiva in ciò che adesso è richiesto nell’attualità di una formulazione urgente come quella del fantasma. Tengo a rilevare che si è trattato di una tappa preliminare essenziale, che esigeva tutta una premessa didattica, perché potesse articolarsi convenientemente la faglia, il difetto, la perdita in cui stiamo per poterci riferire a ciò che riguarda la funzione paterna.
Ho fatto precisamente allusione, rispetto a quel che possiamo definire l’anima, all’anno 1962, in cui appaiono le due opere di Claude Lévi-Strauss: Il Totemismo e Il Pensiero selvaggio. Credo che non ci sia analista che ne ha preso conoscenza, almeno di quelli che seguono questo insegnamento qui, senza sentirsi raffermato, rassicurato e senza [tuttavia] trovarvi il complemento…[Vi si può riscontrare] il carattere radicale della costituzione [secondo una logica] significante in tutto ciò che è cultura…in un modello classificatore molto esaustivo, dove il pensiero selvaggio è meno lo strumento di quanto non ne sia l’effetto, la funzione del totem appare interamente ridotta a quelle opposizioni significanti. È chiaro che per noi analisti questo risulta impenetrabile se non siamo capaci di introdurvi qualcosa che sia dello stesso livello di questo discorso: questa nostra logica dell’oggetto del desiderio. È la logica di cui vi ho dato lo strumento, designando l’apparecchio tramite cui possiamo cogliere qualcosa la cui validità ci conferma che non può che essere stato da sempre la vera animazione della logica…
Ho definito la volta scorsa il punto in un certo modo nuovo di delimitare il cerchio di connotazione dell’oggetto. Prima di lasciarvi quest’anno siamo dunque sulla soglia di porre la funzione di questo punto F, ambiguo, vi ho detto, non soltanto nella mediazione, ma nella costituzione del punto $ e del punto a nel fantasma, l’uno all’altro inerenti – non solo come il rovescio vale il diritto, ma come un rovescio che sarebbe la stessa cosa del diritto – nel riconoscimento di ciò che è il desiderio umano a partire dal desiderio… nel riconoscimento di ciò per cui, nel desiderio, il soggetto altro non è che il taglio di quest’oggetto, e come la storia individuale, [o meglio] quel soggetto discorrente dove quest’individuo è solo compreso… [E come dunque questo soggetto discorrente] è orientato, polarizzato, da quel punto segreto e forse alla fin fine mai accessibile, (se è vero che bisogna ammettere con Freud, per un momento almeno, l’esistenza di quell’ombelico del desiderio nel sogno di cui parla nella Traumdeutung, nell’irriducibilità di una Urverdrängung) è di questo [punto ambiguo F] che noi non possiamo omettere la funzione nell’apprezzamento completo dei termini ($ e a) nei quali scomponiamo le facce di questo fenomeno nucleare [del fantasma]. [La mia personale idea è che questo punto ambiguo, che corrisponde al punto di reversione del taglio nella forma dell’otto interno, punto che segna il passaggio, continuamente spostabile dunque insituabile, dall’interno all’esterno d’ogni superficie unilatera, è lo stesso punto di continuità del femminile con il maschile. Questo spiega come la funzione fallica, equivalente alla funzione paterna, si scriva con la stessa lettera, F, con cui si può scrivere ciò che rappresenta una donna per un uomo. In questo senso la fuorclusione del Nome del Padre equivale alla fuorclusione del femminile].
È questa la ragione per cui prima [di effettuare il passaggio che dalla struttura ci permetta] di ricongiungerci alla clinica, [passaggio] troppo facile per rimetterci sempre nei solchi di verità con le quali ci accomodiamo benissimo in uno stato velato, [quello in cui ci domandiamo]: che cos’è l’oggetto del desiderio per il nevrotico, per il perverso e ancora per lo psicotico? Non è di questo che si tratta, perché questa campionatura servirà solo a farci perdere le carte più interessanti… “Divieni ciò che sei” dice la formula della tradizione classica. Possibile…è un pio voto. Ciò che è assicurato è che tu divieni ciò che misconosci. Il modo in cui il soggetto misconosce i termini, gli elementi e le funzioni, tra i quali si gioca la sorte del suo desiderio, proprio in quanto gliene appare uno dei suoi termini sotto una forma velata, è ciò per cui ciascuno di coloro che noi abbiamo chiamato nevrotico, perverso e psicotico è normale. Lo psicotico è normale nella sua psicosi e non altrove, perché lo psicotico nel desiderio ha a che fare con il corpo. Il perverso è normale nella perversione perché ha a che fare con il fallo nella sua varietà e il nevrotico perché ha a che fare con l’Altro, il grande Altro in quanto tale. È in questo che sono normali, perché sono i tre termini normali della costituzione del desiderio. Questi tre termini sicuramente sono sempre presenti. Per il momento non si tratta che siano presenti in uno qualunque di questi soggetti, ma qui nella teoria.
Sono rimasto colpito ieri dalla lettura del lavoro di uno dei miei allievi sul fantasma. Dio mio, non male. Non è ancora la messa in atto degli apparecchi di cui ho parlato, ma la sola collazione dei passaggi in cui Freud ha parlato del fantasma [ci fa considerare che l’abbia fatto] in un modo assolutamente geniale. In assenza di ciò che, si può dire, queste aperture hanno poi condizionato, ci si domanda donde la prima formulazione può aver trovato quella pertinenza, tale da restare marcata adesso da quello stesso punzone che io tento di isolare qui dalle cose. Quella pulsione che si fa sentire dall’interno del corpo, quegli schemi interamente strutturati da quelle prevalenze topologiche, [non si vede] che è solo lì, sopra [quegli schemi], che è messo l’accento. Come si fa a definire ciò che funziona dall’alimentazione dell’esterno e dall’alimentazione dell’interno? Quale incredibile vocazione di piattezza è stata necessaria, in quella che si può chiamare la comunità analitica, per credere che [questa] è la referenza a ciò che si chiama istanza biologica? Non è che io stia per dire che un corpo, un corpo vivente – non sto scherzando – non è un’istanza biologica, solo che farlo funzionare [il corpo] come topologia nella topologia freudiana, e vedervi non so quale biologismo che sarebbe radicale, è un controsenso… il fatto è che il rapporto della pulsione con il corpo è marcato dappertutto da Freud topologicamente. Ciò non ha lo stesso valore di rinvio, l’idea di una direzione che può avere la scoperta di una ricerca biologica.
È certo che ciò che è un corpo non è un’idea nemmeno abbozzata nel consenso del mondo filosofico, al momento in cui Freud abbozza la sua prima topica. La nozione del Dasein è tutta posteriore, costruita per darci l’idea primitiva di un corpo come un “là”, costituente certe dimensioni di presenza. In qualunque modo le si chiami, queste dimensioni di presenza, Mitsein, “esser là”, e tutto ciò che volete, In-der-Weelt-sein, “essere nel mondo”, tutte le mondanità così differenti e così distinte, perché si tratta propriamente di distinguerle dallo spazio latum, longum et profundum, che non si fa fatica a mostrarci che è solo l’astrazione dell’oggetto, perché è la stessa cosa che si propone come tale in Cartesio, l’astrazione dell’oggetto come sussistente, vale a dire che non è semplicemente un mondo di coerenza, di consistenza, ma enucleato dall’oggetto del desiderio come tale. Così Heideger fa delle suggestive irruzioni nel nostro mondo mentale, ma noi psicanalisti non ne siamo soddisfatti. Questa referenza alla prassi artigianale, fondamento dell’oggetto utensile, che mette alla luce nel modo più preminente, così sottilmente staccate, quelle prime dimensioni della presenza, che sono la prossimità e la lontananza costitutivi dei primi lineamenti di questo mondo, Heideger lo deve al fatto che suo padre era bottaio. Per quanto tutto ciò sia appassionante, lo strumento come primariamente utensile (il cucchiaio primitivo come il primo modo di raccogliere, di trarre qualcosa dalla corrente del mondo) [lo sgabello “prossemico”(?) rapito a un pastore da un mio amico] ha poco a che fare con lo strumento significante.
Se ha un senso ciò che Freud apporta, cioè che al cuore della costituzione di ogni oggetto c’è la libido, se ha un senso, vuol dire che la libido non è semplicemente il surplus della nostra presenza prassica nel mondo. Ma è proprio questa la vecchia tematica che Heideger riconduce, perché se la Sorge è la cura, l’occupazione, ed è ciò che caratterizza questa presenza dell’uomo nel mondo, ciò vuol dire che quando l’occupazione si rilassa un poco si comincia a scopare, che è l’insegnamento del signor Alexander… che coincide perfettamente con gli ideali dell’associazione americana nella quale egli occupa un posto d’onore. Ma anche solo ad abbozzare una teoria del funzionamento libidico, come costituito dalla parte di surplus di una certa energia, di sopravvivenza o di altro che si voglia, è come negare non solo tutto il suo valore noetico, ma la ragion d’essere della nostra funzione di terapeuta, nei termini e nell’intento con i quali la definiamo. Nella pratica sicuramente noi ci accomodiamo molto bene nell’insieme, facciamo molto bene il nostro compito di ricondurre le persone ai loro compiti, soltanto che una cosa è certa, che quando noi etichettiamo quel risultato sotto forma di successo terapeutico, noi sappiamo almeno questo, di due cose l’una: o che noi l’abbiamo fatto al di fuori di qualsiasi specie di via propriamente analitica, e allora ciò che zoppicava al cuore della faccenda continua a zoppicare; oppure che se noi siamo giunti lì, è propriamente nella misura in cui, noi eravamo stati altrove, verso ciò che zoppicava, ciò che toccava, al centro, il nodo libidico. È per questo che ogni risultato sanzionabile nel senso dell’adattamento, ogni successo terapeutico, vale a dire ricondurre le persone al benessere della loro Sorge, dei loro piccoli affari, è sempre per noi più o meno, in fondo lo sappiamo ed è per questo che non dobbiamo vantarcene, un ripiego, un alibi, una deviazione di fondo. La cosa più grave è che così facendo c’impediamo di fare meglio, pur sapendo che quest’azione che è la nostra, di cui possiamo vantarci di tanto in tanto come di una riuscita, è fatta per vie che non riguardano il risultato. È grazie a queste vie che noi apportiamo, in un luogo complementare che non li riguarda se non per ripercussione, dei ritocchi, è il massimo che si può dire.
Quand’è che ci capita di rimettere un soggetto nel suo desiderio? È una questione che pongo qui evidentemente a quelli che hanno qualche esperienza come analisti, non agli altri. È concepibile che un’analisi abbia per risultato di far entrare un soggetto in desiderio, come si dice entrare in trance, in istrada, o in religione? È ben per questo che io mi permetto di porre la questione in un punto locale, il solo in fin dei conti che sia decisivo, perché noi non siamo degli apostoli, [ed] è, se quella questione [è concepibile che un’analisi abbia per risultato…] non merita di essere preservata quando si tratta di analisti, perché per gli altri il problema posto è, che cos’è il desiderio perché possa sussistere, persistere in una posizione così paradossale? Perché in fine è chiaro che in alcun modo io emetto tramite quella il voto che l’effetto dell’analisi debba raggiungere quello colmato da sempre dalle sette mistiche, le cui famose operazioni, senza dubbio ingannevoli, spesso, se non per lo più, dubbie, non sono ciò a cui io vi domando di interessarvi specialmente, se non per il fatto almeno di collocarle tra quelle che globalmente occupano il posto di condurre il soggetto in un posto che altro non è che il campo del desiderio.
Tutto questo non vuole certo dirigervi sull’induismo se non per citarvi uno studioso intelligente che si chiama Louis Massignon il quale ha avvicinato ai testi dell’induismo la tecnica mistica musulmana. Da questo studio si evince che il penultimo passo che secondo il buddismo bisogna superare, trova l’equivalenza con il Mansûr della mistica sciita, dove la funzione dell’oggetto è il punto di svolta indispensabile perché dalla concentrazione mistica si giunga alla realizzazione soggettiva, che in fin dei conti altro non è quello che noi chiamiamo l’accesso al campo del desiderio. A questo stadio l’assunzione del soggetto in un oggetto – scelto d’altronde dalle tecniche mistiche con un ordine arbitrario, questo può essere una donna o forse anche il tappo di una caraffa –, questo oggetto dunque mi sembra coincidere perfettamente con la formula $ G a che io vi do come la formulazione più semplice con la quale c’è permesso di prendere contatto con le diverse forme della clinica. Dobbiamo dunque tornare a quel punto centrale che abbiamo visto in opera nelle superfici topologiche.
Il lavoro del mio allievo al quale facevo allusione poco fa riprende un capitolo che io ho trattato molto tempo fa, cioè la struttura dell’Uomo dei lupi, alla luce della struttura del fantasma. In questo lavoro la cosa è ben centrata, tuttavia in rapporto alle prime formulazioni che ho fatto prima di aver apportato i recenti apparecchi, il guadagno che se ne fa è poco, ma mi indica il punto che bisogna superare. La definizione logica dell’oggetto, che mi permetto di chiamare lacaniano, l’oggetto del desiderio, la funzione logica proprio a questo oggetto sta in quel punto che si trova all’interno del piccolo cerchio dell’otto interno, sia nel suo campo centrale sia al limite di questo campo, perché la funzione logica dell’otto interno sta nella funzione strutturante del punto. Più questo cerchio interno è puntiforme, più il campo che circoscrive produce quegli effetti che gli sono propri d’inversione. Alla luce di questo principio, non c’è problema a intendere ciò che Freud ci ha fornito come riproduzione del fantasma dell’Uomo dei lupi. Voi conoscete quell’albero, quel grande albero e i lupi che non sono assolutamente dei lupi, appollaiati su quest’albero nel numero di cinque, mentre altrove si parla di sette… se avessimo bisogno di un’immagine esemplare di che cosa è quel piccolo a, al limite del campo, quando la sua radicalità fallica si manifesta con una specie di singolarità accessibile lì dove solamente ci può apparire, cioè quando può accostarsi al campo esterno, quello che può riflettere, il campo in cui una simmetria può permettere l’errore speculare, allora quell’immagine esemplare noi l’abbiamo lì. È chiaro, infatti, che questa al tempo stesso non è l’immagine speculare dell’Uomo dei lupi, l’immagine che è lì davanti a lui e che tuttavia, per l’autore del lavoro di cui parlo, è l’immagine stessa di quel momento che il soggetto vive come scena primitiva. Voglio dire che davanti a questa scena c’è la struttura stessa del soggetto: davanti a questa scena il soggetto si fa lupo che guarda, si fa cinque lupi che guardano. Ciò che si apre improvvisamente a lui questa notte di Natale, è il ritorno di ciò che egli è essenzialmente nel fantasma fondamentale. Senza dubbio la scena stessa di cui si tratta è velata; di ciò che egli vede emerge soltanto quel V come ali di farfalla delle gambe aperte di sua madre, o il V romano dell’ora dell’orologio, le cinque dell’ora del caldo estivo in cui sembra essersi prodotto l’incontro. Ma l’importante è ciò che egli vede nel suo fantasma, è lo stesso S barrato, in quanto egli è il taglio del piccolo a. i piccoli a sono i lupi…
Questo oggetto non speculare che è l’oggetto del desiderio, questo oggetto che può trovarsi ad una zona di frontiera in funzione d’immagine del soggetto nello specchio che il grande Altro costituisce, diciamo nello spazio sviluppato dal grande Altro, perché bisogna ritirare questo specchio per farne allora quella specie di specchio della strega, voglio dire gli specchi con una certa concavità, che ne comportano al loro interno un certo numero d’altri concentrici, nei quali vedete la vostra propria immagine riflessa tante volte quanti ce n’è di questi specchi nel grande. È proprio ciò che accade; voi avete presente nel fantasma ciò può essere definibile accessibile solo per le vie della nostra esperienza… ciò che ho voluto indicare oggi è solo questa funzione esemplare delle incidenze più incisive del significante, cioè le incidenze più crudeli nella vita umana e ve l’ho mostrato quando vi dicevo che la gelosia sessuale esige che il soggetto sappia contare. I leoni del piccolo branco allo zoo non sono manifestamente gelosi l’uno dell’altro perché non sanno contare. Tocchiamo qui col dito qualcosa che l’oggetto, così com’Ë costituito al livello del desiderio, solo quest’oggetto può veramente essere numerico, che porta il numero con lui come una qualità.
Non si può essere sicuri di quale numero si tratti: nello schema sono cinque e nel testo sono sette, ma non importa… in ogni caso sotto la penna di Freud ciò che vediamo a questo livello è un’immagine; egli ci dice che la libido del soggetto è uscita da questa esperienza esplosa, zersplittert, zerstort. Il mio caro amico Leclaire non legge il tedesco, non ha messo tra parentesi il termine tedesco ed io non ho avuto il tempo di andare a verificarlo. È la stessa cosa che il termine splitting, spaccato. L’oggetto qui manifestato nel fantasma porta la marca di ciò che noi abbiamo chiamato in molte occasioni le scissioni del soggetto (les refentes du sujet).
Ciò che qui troviamo è sicuramente quello che nello spazio topologico definisce l’oggetto del desiderio, ed è probabile che questo numero che gli è inerente è solo la marca della temporalità inaugurale che costituisce questo campo. Ciò che caratterizza il doppio anello dell’otto interno è la ripetizione radicale; c’è nella sua struttura il fatto di due volte il giro, ed è il nodo così costituito in questo, due volte il giro, da una parte, il temporale, il tempo sviluppato in cui il nostro discorso s’inserisce, ma è anche il temporale come quel termine essenziale per cui la logica qui costituita si differenzia dalla logica formale che è rimasta intatta nel suo prestigio fino a Kant. Il prestigio di questa logica era interamente nell’uso delle lettere, uso di piccole lettere che non ha mai apportato niente a nessuno e non ha mai fatto compiere progressi al pensiero, ma ha esercitato il suo fascino per secoli come uno dei rari esempi che ci veniva dato della potenza del pensiero. Non serviva a niente ma potrebbe servire a qualcosa. Basta che noi riproponiamo ciò che è il suo misconoscimento costituente, A = A, che è il principio d’identità, il suo principio.
Noi diciamo A, il significante, solo per dire che non è lo stesso A. Il significante, per essenza, è differente da se stesso, vale a dire che niente del soggetto potrebbe identificarvisi senza escludersene. Verità semplicissima quasi evidente, che basta da sola ad aprire la possibilità logica della costituzione dell’oggetto, al posto di questo splitting, al posto stesso di questa differenza del significante da se stesso, nel suo effetto soggettivo. Questo oggetto è costitutivo del mondo umano e si può mostrarlo a condizione che lungi dall’avere la minima avversione per questo fatto d’evidenza psicologica, che l’essere umano è suscettibile di prendere i suoi desideri per delle realtà, è invece lì che dobbiamo seguirlo perché, in partenza, egli ha ragione: da nessuna parte altrove, che nel solco aperto dal suo desiderio, egli può costituire una realtà qualunque, che cada nel campo della logica.
Lezione XXVI
La funzione di a, il piccolo a, ci permette di concepire la funzione dell’oggetto nella teoria analitica, vale a dire quell’oggetto che nella dinamica psichica ci struttura tutto il processo progressivo – regressivo, con il quale abbiamo a che fare nei rapporti del soggetto con la sua realtà psichica, ma anche il nostro oggetto, l’oggetto della scienza analitica. [Qui] … non c’è nulla di meglio da dire per qualificarlo, in una prospettiva logica, o meglio, tendente alla logica, che definirlo oggetto della castrazione. Intendo così distinguere una funzione specifica, rispetto alle altre funzioni che hanno permesso finora di discernere l’oggetto nel mondo, l’oggetto di una privazione e l’oggetto della frustrazione.
[L’oggetto della castrazione] se è un oggetto della logica, non può essere stato completamente assente, in tutti i tentativi che si sono fatti per articolare una logica come tale.
Gli attributi … propri … all’oggetto aristotelico … sono quelli che definiscono le classi. Costruzione questa che … si regge sulla confusione delle categorie dell’essere e dell’avere…
Il possesso o non del tratto unario, del tratto caratteristico, è ciò attorno a cui ruota l’instaurazione di una nuova logica classificatoria, [dove] le fonti dell’oggetto aristotelico sono esplicite.
È a Claude Lévi-Strauss che si deve l’articolazione dogmatica della funzione classificatoria…allo stato selvaggio. Articolazione che è più vicina alla dialettica platonica che a quella aristotelica, [per] la divisione progressiva del mondo in una serie di metà, [con] delle coppie di termini antipodici ch’egli racchiude in dei tipi. Leggendo Il pensiero selvaggio, si può vedere che l’essenziale sta in questo: che ciò che non è istrice, ma per esempio toporagno o marmotta, è un’altra cosa. Ciò che invece caratterizza la struttura dell’oggetto aristotelico è che, quello che non è istrice, è non – istrice. Per questo dico che è la logica dell’oggetto della privazione.
… Noi abbiamo a che fare con un inizio, un nocciolo più semplice che voglio illustrare con un proverbio che in francese presenta una particolarità: “Tutto ciò che brilla non è oro”. Nel tedesco colloquiale lo stesso proverbio… si può trascrivere: “Non tutto ciò che brilla è oro”, dove, mettere l’accento sul “tutto” grazie all’anticipazione del “non”, può apparentemente dare più soddisfazione riguardo al senso; ma [questa anticipazione del non] non è abituale e forza il genio della lingua e se ci riflettete lo manca il senso. Facendo uso dei cerchi di Eulero, si può forse dire che una parte di ciò che brilla è nel cerchio dell’oro e un’altra non c’è?
…[nel primo esempio] il tutto si ordina in modo tale che sia messa propriamente in questione la qualità d’oro di tutto ciò che brilla, va nel senso di negargli l’autenticità dell’oro, va dunque nel senso d’una radicale messa in questione. L’oro sta qui a simbolizzare ciò che fa brillare e, per farmi intendere accentuando, ciò che dà all’oggetto il colore affascinante del desiderio. Ciò che è importante in una tale formula, è il punto (d’orage) [in cui risiede il carattere precipuo dell’oro], punto attorno al quale gira la questione di sapere ciò che fa brillare, ciò che c’è di vero in questa brillanza. A partire da lì, nessun oro sarà abbastanza vero da assicurare quel punto attorno al quale sussiste la funzione del desiderio.
…
Tramite l’enucleazione dell’oggetto della castrazione il mondo intero si ordina in modo tale da darci l’illusione di essere un mondo.
Tra questo [oggetto della castrazione] e l’oggetto aristotelico, dove la realtà dell’oggetto che qui tento di promuovere è, in qualche modo, mascherata, metterei nel mezzo quell’oggetto che c’ispira al tempo stesso la più grande diffidenza, per i pregiudizi ereditati da un’educazione epistemologica, ma che è quello in cui sempre si va a cadere, che è la nostra grande tentazione… Se noi analisti non avessimo avuto l’esistenza di uno Jung per esorcizzarlo, forse non ci saremmo nemmeno accorti a che punto ci crediamo sempre. È l’oggetto della Naturwissenschaft, l’oggetto goethiano, quello che legge continuamente a libro aperto, nella natura, tutte le figure di un’intenzione, che chiamerei divina se il termine Dio non fosse così ben preservato da un altro lato. Allora piuttosto che divina chiamiamo demoniaca quest’intuizione goethiana, che gli fa pure leggere nel cranio trovato nel Lido la forma di Werter completamente immaginaria, o foggiare la teoria dei colori. In breve [è un’intuizione] che ci lascia le tracce di un’attività, della quale il minimo che si possa dire è che è cosmogena, generatrice delle più vecchie illusioni dell’analogia microcosmo – macrocosmo, e tuttavia ancora accattivante in uno spirito così vicino a noi. Da cosa dipende questo? Il dramma personale di Goethe [in Poesia e Verità] a che cosa deve il fascino personale che esercita su noi? Se non l’affioramento del desiderio in lui al centro del dramma? La specificità e il carattere affascinante della personalità di Goethe sta nel fatto che noi vi leggiamo in tutta la sua presenza l’identificazione dell’oggetto del desiderio con quello a cui bisogna rinunciare perché ci sia dato il mondo come mondo. Nel Mito individuale del nevrotico ho ricordato in modo esauriente questo caso, mostrandone l’analogia con la storia dell’Uomo dei ratti in Freud [se Goethe non riesce a vivere fino in fondo la sua storia con Federica, alienandosi nell’espediente dei travestimenti, nei quali prende le sembianze di personaggi al di sotto della sua prestanza, è perché vuole misconoscere l’oggetto che identifica nella ragazza].
Questo rapporto complementare di a, l’oggetto di una castrazione costitutiva, in cui si situa il nostro oggetto in quanto tale, con quel resto, dove possiamo leggere la nstra figura di i (a), è questo che la parte più avanzata del mio discorso vuole illustrare quest’anno. Nell’illusione speculare, nel misconoscimento fondamentale con il quale abbiamo a che fare, $ prende funzione d’immagine speculare sotto la forma di i (a), laddove con questa non ha niente a che fare, niente di simile. Non potrebbe leggervi in alcun modo la sua immagine per la buona ragione che se questo S barrato è qualcosa, non è il complemento piccollo i, fattore di piccolo a. Questo potrebbe esserne la causa…
Noi possiamo articolare che se c’è qualcosa su cui dobbiamo mettere l’accento, lungi dall’eluderlo, è che la funzione dell’oggetto parziale non potrebbe essere da noi ridotta, se ciò che chiamiamo l’oggetto parziale è ciò che designa il punto della rimozione per il fatto della sua perdita. L’illusione della cosmicità del mondo si radica a partire da lì. Noi [al contrario] dobbiamo preservare, come punto cardine, quel punto acosmico del desiderio, in quanto è designato dall’oggetto della castrazione. Questo è il centro d’ogni elaborazione di ciò che dobbiamo accumulare come fatti per la costituzione del mondo oggettuale.
Quest’oggetto piccolo a che vediamo sorgere nel punto di cedimento dell’Altro, nel punto di perdita del significante, perché questa perdita è la perdita dello stesso oggetto, del membro mai ritrovato di Osiride smembrato, perché non dare a quest’oggetto la sua proprietà riflessiva, lo dico per parodia perché è lui, l’oggetto, che la fonda, è da lui che parte. In quanto il soggetto d’apprincipio è essenzialmente solo taglio di quest’oggetto, può nascere qualcosa che è quest’intervallo tra pelo e pelle (entre cuir et chair), tra Wahrnehmung e Bewusstsein, tra percezione e coscienza, che è la Selbstbewsstsein. Nell’ontologia fondata sulla nostra esperienza, [nell’inconscio] solo qui merita il suo posto la coscienza di sé. Qui [la nostra esperienza] raggiunge la sua origine presocratica, in una formula a lungo commentata da Heidegger.
Il rapporto di quest’oggetto con l’immagine del mondo che esso ordina, costituisce ciò che Platone ha chiamato la diade, a condizione che ci rendiamo conto che in questa diade il soggetto S barrato e il piccolo a sono dallo stesso lato. To auto einai kai noein, questa formula, che a lungo è servita a confondere ciò che non è sostenibile, l’essere e la coscienza, vuol dire solo questo. In rapporto al correlato del piccolo a, a ciò che resta quando l’oggetto costitutivo del fantasma si è separato, essere e pensiero sono dallo stesso lato, dal lato del piccolo a. Piccolo a è l’essere in quanto è essenzialmente mancante al testo del mondo, ed è per questo che attorno al piccolo a, può scivolare tutto ciò che si chiama ritorno del rimosso, vale a dire che vi trapela e vi si tradisce la vera verità che a noi interessa, e che è sempre l’oggetto del desiderio in quanto ogni umanità, ogni umanesimo è fatto per farla mancare. Per nostra esperienza sappiamo che non c’è nulla che pesi veramente nel mondo tranne ciò che fa allusione a quell’oggetto di cui l’Altro, grande A, prende il posto per dargli un senso. Ogni metafora, ivi compresa quella del sintomo, cerca di far sorgere quest’oggetto nella significazione, ma ogni pullulazione di senso che può generare non arriva ad arrestare ciò di cui si tratta in questo buco d’una perdita centrale.
Ecco ciò che regola segretamente i rapporti del soggetto con l’Altro, ma in un modo che sicuramente non è meno efficace del rapporto del piccolo a, con la riflessione immaginaria che lo copre e lo sormonta. In altri termini, sulla via, la sola che ci sia offerta per trovare l’incidenza di questo piccolo a, noi incontriamo all’inizio la marca dell’occultazione dell’Altro sotto lo stesso desiderio. Questa è la via; a, può essere abbordato per questa via, che è ciò che l’Altro desidera nel soggetto che vien meno, nel fantasma, l’ S barrato. È per questo che io v’insegno che il timore del desiderio è vissuto come equivalente all’angoscia, che l’angoscia è il timore di ciò che l’Altro desidera in sé del soggetto, quell’in sé fondato propriamente sull’ignoranza di ciò che è desiderato al livello dell’Altro. È dal lato dell’Altro che il piccolo a viene alla luce, non tanto come mancanza che [come ciò che viene] a essere. Per questo noi giungiamo qui a porre la questione del suo rapporto con la Cosa, non Sache, ma quella che ho chiamato das Ding. Voi sapete che conducendovi su questo limite, vi ho solo indicato che qui, rovesciando la prospettiva, è piccolo i di piccolo a che avvolge quell’accesso all’oggetto della castrazione. Qui è la stessa immagine che fa da ostacolo nello specchio, o piuttosto, nel modo in cui accade negli specchi scuri, bisogna sempre pensare a questa oscurità ogni volta che, negli autori antichi, vedete intervenire la referenza allo specchio, [quando] qualcosa può apparire al di là dell’immagine che dà lo specchio chiaro. È all’immagine dello specchio chiaro, che si attacca quella barriera che un tempo ho chiamato della bellezza. Pure la rivelazione di piccolo a, al di là di quell’immagine, anche se appare sotto la forma più orribile, ne conserva il riflesso.
Postfazione
Il tratto unico d’identificazione all’oggetto perduto freudiano è riportato al tratto di struttura: il tratto lasciato dalla penna sulla pagina, quello inciso, uno dopo l’altro, dal cacciatore preistorico sulla costola d’antilope, per marcare la differenza di quel colpo andato a segno dal precedente, o quello inciso sulla testata del letto dal Marchese De Sade nel tentativo di agganciare il proprio essere ad ogni atto compiuto, diverso dal precedente e pure uguale, perché mai come quello cercato. È il tratto che contrassegna il ciclo della ripetizione e che pertanto può essere assimilato al giro di una spirale che genera, chiudendosi ad anello, una superficie torica. Chiuso l’anello attorno al buco centrale del toro, il soggetto non sa di avere compiuto un giro in più. Conveniamo con Lacan che i lacci avvolti ad elica, tutto intorno al vuoto centrale del toro, raffigurano le domande della ripetizione, di modo che quello di rotazione, che la spirale ha compiuto ritornando su se stessa, si può assimilare al desiderio. In questa logica di computo, dove tratto unario e laccio stanno per giro della ripetizione, il soggetto che conta va ricercato proprio in quel giro mancante, nel giro originario che la ripetizione vorrebbe far risorgere, riproponendo un nuovo giro sempre uguale e diverso, come lo scacco sempre uguale e diverso che egli ritrova nella sua condotta. Da questo svolgimento il soggetto che ne deriva è aspirato al centro di un vuoto, dove crede di custodire la cosa più preziosa, la ragione del proprio ideale, e non sa d’essere identico a quella mancanza d’essere che ha dato l’avvio al vortice della spirale.
Avvolto come in un bozzolo dalle sue domande, il soggetto fa uno con l’oggetto della pulsione. Il passo da compiere è quello di trasmutare il laccio in un taglio, nella forma di un otto ripiegato su se stesso: otto interno. Considerato che nel cuore della domanda c’è già il desiderio, possiamo raffigurare il giro della domanda in continuità con il giro del desiderio in un laccio unico, che torcendo e divergendo in un punto il suo percorso può ribaltare su se stesso. Il punto di torsione di questo laccio che torna su se stesso è quello che opera la mediazione tra domanda e desiderio, distanziando l’oggetto dall’ideale. L’otto interno col suo taglio doppio ma continuo, permette al soggetto di separarsi. Questa operazione, in cui il soggetto viene ad essere identico al taglio nella forma di una banda di Moebius, perchè possa isolare l’oggetto, non è immediatamente applicabile al toro; perché ciò avvenga, occorre che prima le superfici del toro s’intersechino e si compenetrino trasmutando in una figura topologica diversa, la cui superficie interna si trova in continuità con l’esterna. È così che nelle figure prodotte dall’inconscio, ogni volta che il desiderio fa irruzione nel punto reale, letterale, d’intersezione della linea della domanda su se stessa, viene alla luce il soggetto, come espunto dal suo stesso discorso, in un dire che e-siste al discorso.
“Il tema dell’Idealizzazione, nel Seminario di J. Lacan
dall’Identificazione all’Angoscia”.
Tutto il discorso sull’identificazione è articolato da Lacan intorno al tratto di struttura, passando dal tratto unico d’identificazione freudiano alla domanda che si ripete. La domanda non può che ripetersi sempre uguale e tuttavia diversa da se stessa, perché se potesse da sola stringere ciò che chiede non si ripeterebbe.
Così il tratto è assimilato al giro della ripetizione.
Ciò che permette al soggetto di enucleare l’oggetto, dal complesso gomitolo (cross-cap) delle sue stesse domande, è il taglio di un significante che ritorna su se stesso: per opera di un tratto, che gira due volte su se stesso in un doppio anello, il soggetto è il taglio dell’oggetto. La virtù di tale taglio (otto interno) sta nel condividere con il reale il privilegio di tornare sempre allo stesso posto, permettendo al significante, che per definizione non è mai identico a se stesso, di tornare su se stesso e di incidere nel reale. Fuori dell’operatività di questo taglio, in atto nel lavoro analitico, l’oggetto del desiderio è velato da quell’immagine di cui l’io si compiace. L’immagine speculare, con l’ideale che l’io vi riflette, riveste l’oggetto e costituisce quell’abbigliamento, attraente e repulsivo al tempo stesso, che impedisce al soggetto di raggiungere ciò che, senza sapere, non cessa mai di cercare. Così l’ossessivo prodigandosi a distruggere quell’immagine che pure esercita su lui il massimo della seduzione, non sa che, di là dall’immagine ch’egli, a fasi alterne, protegge dalla suo stesso impulso distruttivo, è proprio l’oggetto che ha di mira. Si spiega allora perché, quando da quell’immagine traluce una brillanza che viene proprio dall’oggetto, che quella ricopre, l’io vi produce un segnale d’angoscia. È dall’imminenza dell’oggetto che l’io si sente minacciato, nelle idealizzazioni che lo sostengono, quando produce il segnale dell’angoscia.
Identificazione e godimento
Chi sono io? Che cosa sono? Dove sono?
“Io sono nel posto dove si vocifera che l’universo è in difetto nella purezza del Non-Essere”.
È dal posto del godimento che il soggetto si rivolge la questione sul proprio essere, a partire dal momento in cui questo posto vacilla, messo in sospeso da ciò che egli deve subire a livello di identificazione, proprio perché, su un altro piano, al livello di Universo simbolico, in un luogo cioè sgomberato dal godimento, egli è chiamato a instaurarsi come soggetto logico; ma qui è proprio la mancanza di godimento a rendergli inconsistente questo Universo.
Di fatto il godimento gli resta addosso, con quella parte di libido che non riesce a trasfondere dal proprio corpo sul corpo dell’altro, e che, senza saperlo, concentra in sé “ciò che di più intimo v’è nell’autoerotismo”; sicché non sapendo di averlo su di sé, egli si dedica senza tregua a cercarlo nell’Altro.
Da qui si origina la ripetizione, perché ciò che il soggetto va cercando nel luogo dell’Altro è quel tratto, quel singolo elemento di struttura, quel significante in cui l’io si riconosca (Io ideale) e che gli renda ragione di ciò che ha perduto nella prima identificazione (Ideale dell’io). Identificazione alla quale tuttavia si rapportano le differenti idealizzazioni che sostengono le norme della stabilizzazione sociale.
È così che la protesta insorge contro quelle norme tentando di sublimarle nella perversione, mentre il disagio del soggetto si configura e prende corpo nel sintomo come metafora della questione: Chi sono io? Che cosa sono? Dove sono?
“Io sono nel posto dove si vocifera che l’universo è in difetto nella purezza del Non-Essere”.
Soltanto che, nelle varie forme del sintomo e della perversione il posto del godimento non è più riconosciuto come tale perché si è trasmutato in un inferno di, dolore e sofferenza, orrore e disgusto.
Il linguaggio isterico
Il linguaggio isterico è una modalità di scrittura con un suo particolare codice, che trova i suoi elementi compositivi nell’immaginario del corpo. Questo materiale combinatorio, per quanto epurato di senso, ha conservato tuttavia un legame con il corpo per un aggancio alle sue funzioni organiche: ne deriva un singolare repertorio di tratti, che hanno la funzione combinatoria della lettera pur mantenendo il loro legame con una funzione vitale dell’organismo. Questo spiega, forse, il mistero rilevato da Freud della caratteristica “innervazione somatica”, che fa del sintomo isterico una scrittura sul corpo.
Il linguaggio isterico opera dunque allo stesso modo del processo in atto nelle formazioni dell’inconscio: sogni, lapsus e motti di spirito.
Dire pertanto con Freud che “il linguaggio della nevrosi ossessiva…è solo un dialetto del linguaggio isterico…poiché è più affine…al modo di esprimersi del nostro pensiero cosciente” (L’uomo dei topi; Premessa, p. 8) vuol dire che solo apparentemente è assimilabile al discorso comune; perché se ne discosta allo stesso modo in cui la struttura formalizzata del brano letterario si distingue da quella non elaborata del racconto immediato e parlato.
Freud ha rilevato nel lavoro delle formazioni ossessive un suo procedimento nascosto che lo avvicina al lavoro del sogno: “…i pensieri ossessivi subiscono una deformazione analoga a quella subita dai pensieri onirici prima di divenire contenuto manifesto del sogno”, (S. Freud, L’uomo dei topi; Considerazioni teoriche, p. 58).
Si tratta tuttavia di una deformazione che opera sul pensiero “per omissione o ellissi”, lasciando intatto l’enunciato in una frase ridotta all’essenziale, perché privata dei passaggi logici intermedi, sicché può accadere che “nella nevrosi ossessiva i processi psichici inconsci irrompono talora nella coscienza nella loro forma più pura e inalterata”, (S. Freud, L’uomo dei topi; Considerazioni teoriche, p. 60).
Ciò che caratterizza il linguaggio della nevrosi ossessiva, è la prevalenza nel tessuto discorsivo di ponti associativi, scambi e incroci, a collegamento plurimo, che fanno perdere di vista il nesso con l’intenzione ragionante, ma sono segretamente regolati da un disegno sconosciuto, che sottende il corpo immaginario di un pensiero, dotato per altro di una dialettica lucida e conseguente.
L’autore di questo disegno sotteso è un desiderio non accettato, tanto meno accettato quanto più imperioso, che conduce forzatamente il pensiero ragionante verso conclusioni errate e decisioni irrazionali, a volte in contrasto con la sua dote analitica e deduttiva. L’ossessivo è un pensatore che mette a profitto le sue doti analitiche e deduttive, ma il suo pensiero resta dominato da una superfetazione di immagini visive, sonore e olfattive, ed è tra queste immagini ch’egli trova i nodi di scambio che irresistibilmente lo determinano verso l’ideazione ossessiva e lo risolvono all’azione ossessiva.
Idea ossessiva e azione ossessiva, sono pertanto il prodotto finale di un lungo lavoro di difesa nei confronti di un desiderio che è stato accuratamente tenuto in disparte e non è escluso che tutto il lavorio ragionante sia solo servito a portare fuori strada.
Prendiamo in considerazione “Una delle idee ossessive più antiche e predilette del paziente…Se io sposo la donna, accade una disgrazia a mio padre (nell’aldilà)”. Questa idea è il risultato della contrazione di una frase più articolata ricostruita da Freud: “Se mio padre fosse vivo, di fronte al mio piano di sposare quella donna, si adirerebbe come allora, nella scena infantile, di modo che io andrei nuovamente in collera contro di lui e gli augurerei tutto il male possibile; e poi, data l’onnipotenza dei miei desideri, questo male lo colpirebbe davvero”.
L’otto interno
… nel riconoscimento di ciò per cui nel desiderio il soggetto altro non è che il taglio di quest’oggetto, e come la storia individuale, [o meglio] quel soggetto discorrente dove quest’individuo è solo compreso.
[E come dunque questo soggetto discorrente] è orientato, polarizzato, da quel punto segreto e forse alla fine mai accessibile, (se è vero che bisogna ammettere con Freud, per un momento almeno, l’esistenza di quell’ombelico del desiderio nel sogno di cui parla nella Traumdeutung, nell’irriducibilità di una Urverdrängung) è di questo [punto ambiguo] che noi non possiamo omettere la funzione nell’apprezzamento completo dei termini nei quali scomponiamo le facce di questo fenomeno nucleare.
[La mia idea è che questo punto ambiguo, che corrisponde al punto di reversione del taglio nella forma dell’otto interno, punto che segna il passaggio, continuamente spostabile dunque non situabile, dall’interno all’esterno di ogni superficie uni-latera, è lo stesso punto di continuità che coniuga e disgiunge la verità con il sapere cui corrisponde l’aporia della castrazione come realtà del femminile e verità del maschile. Questo spiega come la funzione fallica, equivalente alla funzione paterna, si scriva con la stessa lettera che designa ciò che rappresenta una donna per un uomo. In questo senso la forclusione del Nome del Padre equivale alla forclusione del femminile].
È questa la ragione per cui prima [di compiere il passaggio che dalla struttura ci permetta] di ricongiungerci alla clinica, [passaggio] troppo facile, perché ci rimettiamo sempre nei solchi della verità, con i quali ci accomodiamo benissimo in uno stato velato, [quello in cui ci domandiamo]: che cos’è l’oggetto del desiderio per il nevrotico, per il perverso e ancora per lo psicotico? Non è di questo che si tratta, perché questa campionatura servirà solo a farci perdere le carte più interessanti… “Divieni ciò che sei” dice la formula della tradizione classica. Possibile…è un pio voto. Ciò che è assicurato è che tu divieni ciò che misconosci. Il modo in cui il soggetto misconosce i termini, gli elementi e le funzioni, tra i quali si gioca la sorte del suo desiderio, proprio in quanto gliene appare uno dei suoi termini sotto una forma velata, è ciò per cui ciascuno di coloro che noi abbiamo chiamato nevrotico, perverso e psicotico è normale. Lo psicotico è normale nella sua psicosi e non altrove, perché lo psicotico nel desiderio ha a che fare con il corpo. Il perverso è normale nella perversione perché ha a che fare con il fallo, nella sua varietà, e il nevrotico perché ha a che fare con l’Altro, il grande Altro in quanto tale. È in questo che sono normali, perché sono i tre termini normali della costituzione del desiderio. Questi tre termini sicuramente sono sempre presenti. Per il momento non si tratta che siano presenti in uno qualunque di questi soggetti, ma qui nella teoria.