Posso autorizzarmi a reinventare la psicanalisi?

Posso autorizzarmi a reinventare la psicanalisi?

Posso autorizzarmi a reinventare la psicanalisi?    Luigi Burzotta

Amore e portacenere

L’elaborato che qui propongo è condotto su quattro testi di J. Lacan, appartenenti ad epoche diverse e che provo a far interagire, a partire da una trovata che estraggo da Varianti della cura tipo, 1955, il primo dei quattro. Il secondo testo, è la parte dedicata al Transfert nel Seminario XI (1964). Il terzo testo, è la Proposizione del 9 ottobre 1967 sullo Psicanalista della scuola, dove si trova la distinzione tra il fatto di una nomination dell’analista da parte dell’autorità gerarchica di un’istituzione analitica, e l’autorizzazione di un atto analitico che non fa a meno dell’istituzione, ma che la implica con la procedura della passe. Di questo testo io privilegio ciò che concerne il momento di passaggio, nella cura, dall’analizzante all’analista, facendo astrazione della procedura della passe, che tuttavia vi è essenziale, ma che non è tema di questo elaborato. Ancora più essenziale, è la testimonianza della passe  nel quarto testo, le Direttive che, sotto forma di lettera, sono indirizzate da Lacan agli Italiani (aprile 1974). Curiosamente nelle Direttive, vi è una prevalenza dell’attenzione, rispetto agli altri tre, sul sapere, in gioco nella cura, che è ciò che qui prendo in esame. Tutti gli estratti di quest’ultimo testo, senza citarlo, sono riprodotti in corsivo.

 

«L’analista si distingue in quanto fa di una funzione comune a tutti gli uomini, un uso che non è alla portata di tutti, quando porta la parola»[1].  A questo significante, «porta», che qui sorregge «la parola», si potrebbe dare la funzione che svolge nella serie dei composti che dal presente indicativo del verbo «portare» traggono il prefisso.

Nel dizionario ne ho contati, iniziando da portaacqua per finire a portavoce, 130; parecchi dei quali molto suggestivi e credo di interesse quanto all’argomento che vorrei trattare; ma devo dire che il primo, e devo confessare tra i pochi che mi sono venuti alla mente senza l’ausilio del dizionario, è stato porta-cenere.

Potrebbe sembrare ingiurioso questo accostamento di chi porta la parola al portacenere, se la cenere non fosse ciò in cui si riduce il miele delle parole dette nel corso dell’analisi: se il portacenere non fosse lì a coglierla, il soggetto non si avvedrebbe di quale sostanza sono fatte le sue preziose parole.

Eppure tra le molte qualcuna ce n’è che porta la verità; ma si dà il caso che proprio quelle poche, sono tra quelle che, da chi la enuncia, sono tenute nella scarsa considerazione che si ha per la cenere che si lascia cadere.

Allora quando capita che emerga la parola che porta la verità, la funzione di chi porta la parola è prenderne il carico, per farne sentire il gusto amarognolo a chi la dice, un istante prima che, come le altre, si riduca in cenere.

La verità che qui si rivela in modo scarno e disadorno, priva com’è di ogni colore sentimentale, questa verità gelante non ha niente a che vedere con quella presunzione di verità che, di consueto, il parlante vuole accordata alla sua parola e al suo discorso, quando mirano al riconoscimento.

È nell’ordine dello scambio interumano che il discorso e la parola si attribuiscono un valore di verità, che ognuno dei parlanti vuole che sia sancito dall’altro.

Questo circuito, questo passaggio della parola come proveniente dall’altro, «sei il mio maestro», è la torsione compiuta perché ci sia il riconoscimento del «sono il tuo discepolo»; senza tuttavia implicare l’ammissione di un altro soggetto, che anzi risulta annullato da quella torsione compiuta in chi parla e ridotto alla pura funzione d’eco. È a questa funzione d’eco che ci apprestiamo a ridurre continuamente il nostro interlocutore nel comune discorso intermedio.

Cosa spinge il soggetto a postulare l’accordo dell’altro, mettendo in atto una strategia, il cui «processo si compie nella malafede del soggetto, governandone il discorso fra l’inganno, l’ambiguità e l’errore»?

Se il discorso intermedio è come in preda alla febbre del riconoscimento, lo deve al punto dal quale si origina, dove quel primo tratto significante, – quella parola premurosa, quello sguardo ammiccante dell’Altro ha promosso il primo riconoscimento dell’immagine speculare e la conseguente apertura, a favore di questa, della valvola del travaso libidico; è il bagno narcisistico da cui sorge l’io.

È probabile che se il legame del significante con il prestigio dell’io non fosse di struttura, il discorso non sarebbe preso, come lo è, da questa febbre del riconoscimento; esso prosegue nel suo registro la corsa, ma la mira è sempre quella narcisistica, mira che permea ogni rapporto con l’Altro, ivi compreso quello d’amore. La passione d’amore si accende quando il miraggio dell’io, il suo ideale narcisistico, viene a coincidere, in un tratto colto nell’altro, con l’Ideale dell’Io. Da qui comincia tutta la manovra d’inganno per rendersi amabile agli occhi dell’altro.

Senza questa equivalenza tra l’amare e l’essere amato non ci sarebbe quell’effetto che fa funzionare il transfert, benché ne costituisca il suo aspetto di resistenza. «Noi siamo vincolati – dice Lacan nel Seminario XI – ad attendere questo effetto di transfert per potere interpretare, e al tempo stesso sappiamo che esso chiude il soggetto all’effetto della nostra interpretazione».

L’analista si presta ad essere l’oggetto di questa manovra d’inganno perché questa posizione implica quella del soggetto supposto sapere; dalla quale può far valere ciò che opera nella cura: il desiderio. All’amore narcisistico dell’analizzante corrisponde il desiderio dell’analista.

Per operare questo slittamento da un campo all’altro non è sufficiente «che l’analista occupi, nella seduta, un posto che lo renda invisibile al soggetto: in tal modo, infatti, l’immagine narcisistica non potrà che prodursi più pura, e il campo sarà più libero al proteismo regressivo delle sue seduzioni». Ci vuole altro e non basta nemmeno che l’analista si astenga dal rispondere agli appelli del soggetto.

Se accettiamo con Lacan che il desiderio abita il discorso di ognuno, parassitandolo con elementi incongrui, che si cela nei suoi interstizi e si dissimula nelle sue smagliature, com’è possibile che nell’analisi il desiderio sia dell’analista se il discorso è quello del soggetto analizzante? Nella mia ipotesi, il desiderio è dell’analista ma abita il discorso dell’analizzante: non soltanto perché questo discorso trova nell’analisi il suo termine e la sua ragione, ma  soprattutto perché è soltanto all’interno di questo discorso che l’analista si orienta alla ricerca di un significante nuovo, dove, mosso dal desiderio, opera quel taglio, che è l’atto per il quale il soggetto dell’inconscio, in una pulsazione, sparisce nell’attimo stesso in cui è  appena apparso.

Questa situazione paradossale della psicanalisi esige che l’analista, in anticipo, prima di occupare quel posto, se uno ce n’è, abbia rinunciato ai prestigi del proprio io e alla presunzione di sapere su cui l’io si compiace e si sostiene, abbia fatto cioè piazza pulita.

Nella Direzione della cura (1958), Lacan, per illustrare che gli elementi in gioco sono almeno quattro, quasi per dire che ci vogliono almeno quattro persone per fare un soggetto, mimando la partita a Bridge, fa prendere all’analista il sembiante di ciò che questo gioco chiama “il morto”. Così egli fa sorgere il quarto come partner dell’analizzante, ma per precisare che l’analista non occupa un posto fisso, perché gioca ora prima ora dopo il quarto con il morto, ponendosi ora a destra ora a sinistra del paziente; ma come questo partner, di cui con le sue giocate vuol fargli indovinare le carte, nella funzione del grande Altro è sempre l’analista, ne consegue che quel posto muta continuamente.

La topologia della partita al bridge prefigura quel posto cangiante che soltanto nel nastro di Moebius, più tardi introdotto, trova la sua posizione mutevole di luogo senza posto (fisso): quel punto di svolta grazie al quale si passa inavvertitamente da una faccia all’altra della superficie, riducendola a un solo lato.

Come questa superficie unilatera, nella topologia di J. Lacan, è generata dall’estrazione dell’oggetto piccolo a, nell’operazione di taglio del significante che genera il soggetto, ecco che, di conseguenza, allo stesso modo che l’atto di questo taglio è identico al soggetto, (Seminario L’identificazione, 1962), l’oggetto estratto, enigmatico e inafferrabile può essere assimilato a quel punto di svolta sempre cangiante e sfuggente su tale superficie, punto di annodamento tuttavia inerente a questa superficie, perché la muta da bilatera in superficie unilatera.

È di tale oggetto che si tratta, quando, svestitosi d’ogni pretesa immaginaria, l’analista può mettersi in posizione d’oggetto, di quella cosa che, a un certo momento della propria analisi, gli si era rivelata, come « l’essere che egli non sapeva [fosse] la causa del suo fantasma, in quel momento stesso in cui in cui infine egli quel sapere stesso lo è divenuto…». È così che « l’essere del desiderio perviene all’essere del sapere, per rinascere nel fatto che essi si annodano in un nastro fatto di un solo bordo, in cui s’iscrive una sola mancanza, quella che sostiene l’agalma» (Proposizione del 9 ottobre 1967 sullo psicanalista della scuola).

Allora s’intende come solo azzerando il proprio discorso intermedio, fondato sulla presunzione di sapere, l’analista può assumere la funzione della mancanza, sgomberando così la strada al discorso dell’analizzante e attendere come sua la verità del soggetto che vi si svela.

È tuttavia l’avvento di una verità che non può dirsi tutta perché essa serve solo e soltanto a dare luogo alla piazza in cui si denuncia il sapere in gioco. Ecco allora che sapere e verità, pur sempre estranei, l’una all’altro, appaiono qui, in qualche modo, topologicamente connessi da quel punto di svolta, che occupa un posto sempre mutevole in quella superficie a un solo lato, quella in cui il passaggio da un lato all’altro avviene senza traversare il bordo. Di tale superficie, in cui il diritto sia in continuità con il rovescio, il punto di passaggio da un lato all’altro diviene, un punto d’inversione, de rebroussement, ma per questo, non fissabile nel mobile continuum, che dei due lati della striscia ne fa uno. Punto che pertanto si sottrae al momento di mostrare la verità come l’altra faccia del sapere, quella di cui si ha orrore e di cui nessuno vuol sapere.

Soltanto nel modo combinatorio della lettera può inverarsi questo sapere su qualcosa che non si vuol sapere.

Non c’è rapporto sessuale: ecco l’ho detta la frase ritornello che lascia tutti a bocca asciutta, per non dire perplessi. È qui tutto il sapere in gioco? Non c’è rapporto sessuale che possa scriversi, mettersi in scrittura, cioè cifrarsi in una combinazione di elementi; e allora?  Perché farne una scrittura? Alla buon’ora! Tutti credono che ci sia un rapporto nel quale si può trovare un’ora di felicità e se ne impipano che possa scriversi, non ci pensano nemmeno per un attimo a metterlo in scrittura; ma è esattamente qui la questione. Se questo sapere non è “niente”, ed è tuttavia qualcosa, dipende esattamente dal suo legame con l’inconscio, che, quando si manifesta, avviene sempre nei termini letterali della scrittura.

È allora, proprio in queste manifestazioni, che «la presenza stessa dello psicanalista è una formazione dell’inconscio» (Sem. XI, 15 aprile 1964), a condizione che il suo atto si produca secondo i modi della «scrittura», cifrando cioè quegli elementi, mettendo in cifra quei segni che, nel discorso dell’analizzante, vagano alla deriva e spesso, qui sta il pregio, a controsenso.

È la combinatoria nella quale questo rapporto si può tentare di scriverlo, pur sapendo che farlo è impossibile, e tuttavia non si può desistere dall’impegnarsi a inventare un modo nuovo di provare a sapere che non si può scrivere. Ciò vale a dire che senza tentare di scriverlo non c’è mezzo di raggiungere il fine per cui la psicanalisi potrebbe eguagliare la scienza, dimostrando cioè che questo rapporto è impossibile scriverlo: è in questo che esso non è affermabile ma neppure confutabile, a titolo della verità. Con la conseguenza che non c’è verità che possa dirsi tutta, sul piano del dire, laddove, nella materialità letterale della scrittura, questo sapere non è proprio “niente”, perché accedendo al reale, lo determina tanto quanto il sapere della scienza.

Questo vuol dire che, nell’inconscio, non c’è traccia di elementi identificabili, come maschile e femminile, per significare questo rapporto, ma che, non di meno, ce n’è, in potenza, un sapere che: non c’è rapporto sessuale. È un sapere di cui nessuno vuol sapere: come accade alla pretesa umanità per la quale il sapere non è fattibile perché lei non lo desidera, attenendosi a tutte le abilità di cui dispone per ovviare a questa impossibilità, e, per metterla in oblio, fa pure appello, a un sapere da Freud designato come inconscio, e che pure inventa per perpetuarsi da una generazione all’altra ma sul registro di un inventario tutto immaginario. Un sapere ormai inventariato, cui si fa ricorso come alibi della propria ignoranza.

Solo chi si attiva perché questo desiderio gli venga perché ha riconosciuto nel suo sapere il sintomo della sua ignoranza, può elaborare un modo nuovo di prender posto in questo luogo cangiante, dove qualcosa di nuovo può rivelarsi. Autorizzarsi ad abitare questo posto senza luogo, dove il sapere s’inventa, è il modo specifico di esserci come psicanalista. Ciò richiede l’assunzione di un sostanziale dis-essere, che è la condizione preliminare a ogni nuova creazione, perché questo sapere non è bello e pronto. Bisogna inventarlo.

Senza far cadere l’immaginario, basta lasciare in sospeso l’immaginazione che qui ha il fiato corto, e di mettere all’opera il contributo del reale e del simbolico, che l’immaginario qui annoda, per tentare a partire da loro, [RSI], di ingrandire le risorse, grazie alle quali pervenire a dispensarsi di questo increscioso rapporto: è la modalità di scrittura del nodo borromeo.

A questo scopo, «la prevalenza del sapere testuale per opporlo alla nozione referenziale» può essere qui essenziale: Che « … La psicanalisi [abbia] consistenza, dai testi di Freud, è un fatto irrefutabile. Si sa ciò che, da Shakespeare a Lewis Carrol, i testi apportano al suo genio… È [il campo] da cui il sofista e il talmudista, il cantastorie e l’aedo hanno preso la forza che in ogni momento noi recuperiamo per il nostro uso», (Proposizione del 9 ottobre 1967, prima stesura, Autres Ecrits). Questa forza deriva tutta dal fare astrazione dal senso, per mettere in gioco la lettera con il numero, che è il solo modo di liberare un senso nuovo dal testo, ossia d’inventarlo.

La parentela dell’interpretazione, da qualcuno segnalata, con il motto di spirito, può spiegare la sua efficacia. Nei casi fortunati in cui riesce a smontare lo stratagemma narcisistico messo in opera dall’analizzante, l’interpretazione fa sorgere dalle sue ceneri, più pura, la pulsione «…se il transfert è ciò che dalla pulsione stacca la domanda, il desiderio dell’analista è ciò che gliela riconduce. Per questa via egli isola l’a, lo mette alla più grande distanza possibile dall’ I che lui, l’analista, è chiamato dal soggetto a incarnare. È da questa idealizzazione che l’analista deve decadere per essere il supporto dell’a separatore». Così recita Lacan nel seminario dei «Quattro concetti», quando si occupa, tra i «fondamentali», del transfert (24.06.’64). È qui che prendendo in esame, da par suo, il termine «liquidare», usato troppo alla leggera per designare l’uscita dal transfert, Egli fa osservare l’incongruenza che vorrebbe sia liquidato il Soggetto supposto sapere, proprio al momento in cui, chi ne occupa il posto è nella condizione di saperne un pochino di più del soggetto supposto liquidatore.

In questo malinteso possiamo trovare la porta, il cui cardine è quel resto che divide le due parti in gioco nel transfert e che, l’una e l’altra, non fanno che un solo soggetto, se è vero che l’analista ha preso all’origine il posto dell’agalma.

Per ritornare alla metafora delle api, se c’è qualcosa che può liquefarsi come cera al fuoco dell’interpretazione è invece l’inganno d’amore; quello grazie al quale il soggetto si rende amabile, per vedersi soddisfacente da un punto ideale preso nell’Altro. Questo avviene quando l’analista mette alla dovuta distanza quel punto ideale, quel tratto dell’Identificazione, da cui viene tutto il prestigio all’immagine narcisistica, di modo che il soggetto può disporsi a riconoscere quale oggetto quest’immagine ricopre: quello al quale egli è più propriamente identico. Si tratta dell’oggetto inafferrabile che governa tutta l’economia libidica e che Lacan designa algebricamente con un piccolo “a”, perché, nelle sue varie manifestazioni pulsionali, non muta la funzione. Si tratta per ognuno di riconoscere a cosa serve avvolgersi con la pulsione perché ciascuno si miri al cuore per non giungervi che a un tiro che lo manca; perché di questo cuore la pulsione non può che farne il giro.

Nel momento in cui il soggetto si avvede che servono proprio a questo le varie sostanze episodiche di quest’oggetto, che è proprio questo avvitarsi su se stesso con la propria domanda ciò che fa da supporto alle realizzazioni più effettive e anche alle realtà più avvincenti, soltanto allora egli è indotto a «superare il piano dell’identificazione» (Sem. XI, 24/06/’64). Superamento vuol dire che la presenza avvertita della vacuità dell’oggetto ormai viene a guastare l’ebbrezza del miraggio narcisistico. Va da sé che in questo superamento «la curva si richiude aldilà della funzione dell’[oggetto] a » (Sem. XI, 24/06/’64); funzione che ora si svela al soggetto per quella che è: di voler colmare la mancanza nell’Altro per porre riparo alla propria, che è anche il modo principale di supplire al fatto che non c’è rapporto sessuale. Nell’universo della parola non c’è nulla, che il soggetto stesso non vi abbia collocato, che possa rispondere del suo essere, in difetto irrimediabile.

Ciò che il soggetto vi ha collocato è la credenza di poter colmare la propria mancanza facendo “uno” con l’altro, di poter conseguire la propria, perseguendo l’integrità dell’immagine narcisistica nell’altro. È su questa mira narcisistica che si regge l’idea che ci sia rapporto sessuale, misconoscendo la confusione dei due piani, quello narcisistico con quello sessuale, agito il primo dall’immagine, il secondo dalla pulsione. Immagine e pulsione restano confusi nella presunzione di tale rapporto pur essendo incommensurabili tra loro.

Sprovvisto del suo rivestimento narcisistico che lo faceva prezioso, l’essere s’invola e il soggetto può cogliersi nel suo dis-essere. Egli vede allora «traballare la sicurezza che traeva da quel fantasma in cui si costituisce per ciascuno una finestra sul reale» constatando che  «la presa del desiderio altro non è, che quella del dis-essere».

«In questo dis-essere si svela l’inessenziale del soggetto supposto sapere, donde lo psicanalista a venire si vota all’agalma dell’essenza del desiderio pronto a pagare col ridursi, lui e il suo nome, al significante qualunque » (Proposizione del 9 ottobre 1967, prima stesura, Autres Ecrits). A che pro allora proporre ad un altro ciò che quello era stato per lui, se la caduta dell’oggetto gli ha svelato la pulsione come quella con cui il soggetto si avvolge? Perché ricominciare questo giro all’infinito della domanda come domanda dell’Altro?

Si potrebbe ritenere che il progetto sia quello di ridurre, ancora una volta, alla sua dimensione il desiderio dell’analista al «… desiderio di ottenere la differenza assoluta, quella che interviene quando, confrontato col significante primordiale, il soggetto giunge per la prima volta in posizione di assoggettarglisi». Così termina J. Lacan il Seminario, I quattro concetti fondamentali della psicanalisi, proponendo come operatore, infine dirimente tra narcisismo e desiderio, l’attivazione della legge del nome, quella che sta al principio stesso della parola. Da dove sorge allora questa idea, in chi ha conosciuto «questa metamorfosi in cui il partner svanisce, per il fatto di essere ormai soltanto vano sapere di un essere che si sottrae», l’idea folle cioè di poter ripetere questo processo, se non dal desiderio di rinnovare a proprie spese la barra sul grande Altro? Se non fosse che, compiuto il ciclo, ogni volta «il soggetto rinvia allo psicanalista l’effetto d’angoscia in cui egli precipita nella sua deiezione» (Proposizione del 9 ottobre 1967, Autres Ecrits).

È per questo che, la ricerca incessante d’un significante nuovo, che possa finalmente dirci qualcosa d’inedito su questo sapere, da ognuno rifiutato ma non confutato, che non c’è rapporto sessuale, può darci il motivo del nostro impegno in questa comune avventura.

Bisogna soltanto dire, che non c’è impegno senza immettersi in un corridoio e chiudersi la porta dietro, gettando via la chiave, facendo cioè astrazione dal fallo per l’uno e per l’altra, sapendo che non c’è altra possibilità per inventarsi un percorso tutto proprio; e che l’atto di cui autorizzarsi richiede quell’astrazione, preliminare all’atto, di lasciarsi la porta alle spalle. È questo il senso del mio titolo, che è anche l’unico “titolo”, per giocare sull’equivoco del termine, che si può tenere nella tasca in quest’avventura, in cui si scambia il testimone tra analizzante ed analista.

Voglio terminare con un voto di Lacan che nel seminario del 17 maggio 1977, L’insu qui sait de l’une-bévue s’aile à mourre, alla ricerca d’un significante nuovo che per il fatto di non avere alcuna specie di senso, sarebbe ciò che aprirebbe nel reale, conclude:

«Se mai vi convoco a proposito di questo significante, voi lo vedrete affisso e sarà tuttavia un buon segno (…) che forse una piccola luce mi sarà arrivata».

A mio avviso la gloria di Lacan è di non avere mai fermato la sua ricerca pur sapendo che forse non avrebbe mai convocato i suoi allievi a proposito di questo significante.

 

La cifra

 

 

C’è continuità tra il dire e lo scrivere, come due facce che proseguono l’una nell’altra, perché nel dire può esserci un evento dello scritto.

Il dire poggia sulla voce che, come ognuno può avvertire dallo straniamento che talvolta gli dà il fatto di sentirsi parlare, risuona nel corpo, dove gli fa eco la pulsione.

Ciò che consente il passaggio, che permette l’inversione dal dire allo scrivere, è la lettera come residuo del significante, che, sganciandosi dalla voce, e per tanto, dalla pulsione, precipita come scarto e, quale elemento di puro reale, fuori senso, può dar luogo, nel gioco combinatorio della fonazione, allo scritto, quando si manifesta il soggetto dell’enunciazione.

 

La lettera, precipitato del significante, che si appoggia alla voce, appartiene al registro del reale, mentre l’artificio combinatorio della fonazione appartiene al dominio dell’immaginario.

La scrittura richiede un apporto, che viene dai tre registri.

La voce è un oggetto pulsionale e si appoggia al significante che appartiene al registro simbolico.

La lettera, precipitato, scarto del significante legato alla voce, appartiene al registro del reale, mentre la combinatoria della fonazione appartiene al dominio dell’immaginario.

La scrittura richiede un apporto, che viene dai tre registri.

[1] J. Lacan Varianti della cura tipo, Einaudi, Torino, 1974, pg. 345.