Mosè e la religione monoteistica – Lettura dell’Etica della psicanalisi di J. Lacan – 10 Novembre 2017

Mosè e la religione monoteistica – Lettura dell’Etica della psicanalisi di J. Lacan – 10 Novembre 2017

10 Novembre 2017

 

Lettura dell’Etica della psicanalisi di J. Lacan

 

Mosè e la religione monoteistica

 

L. Burzotta

 

Oggi vorrei ricollegarmi proprio alla frase di cui abbiamo parlato la volta scorsa, Dio è morto, che Lacan considera come una verità comunemente accettata, e facendola propria come la formula condivisa di un’acquisizione compiuta dall’epoca moderna, riconduce tale verità al mito creato da Freud, in Totem e Tabù, dell’uccisione del padre primordiale, un enunciato quindi da cui può dedurre: “Visto che è morto vuol dire che è morto da sempre”.

È la sintesi conclusiva della lezione che abbiamo esaminato la volta scorsa, dove Lacan espressamente sostiene che c’è un messaggio ateo nel cristianesimo, citando le parole di Hegel: “è grazie al cristianesimo che si completa la distruzione degli dei”, enunciato che qui subito ci collega, nella lezione del seminario di Lacan che affronteremo oggi, a questa frase: “L’uomo sopravvive alla morte di Dio da lui stesso assunta”, che si riferisce alla questione del Cristianesimo, sollevata da Freud nell’Uomo Mosè e la religione monoteistica.

Secondo Freud la religione trova il suo apice nel cristianesimo, in quanto esso completa quello che è il legame tra filogenesi e ontogenesi: quello che si è vissuto nelle varie epoche a partire dall’uccisione del padre primordiale, è anche quello che si realizza nella storia individuale di ogni nevrotico.

Prima di procedere con la nuova lezione vorrei tornare alla frase poetica con la quale Lacan conclude la lezione precedente: “La leggenda pagana ci dice che sul Mar Egeo, al momento in cui si lacera il velo del tempio, risuona il messaggio: Il grande Pan è morto.” La leggenda a cui Lacan si riferisce è una di quelle storie che Plutarco racconta nel suo De Defectu Oraculorum, Il tramonto degli oracoli; paragrafo XVII: “Quanto alla morte di questi esseri [che dovrebbero essere le divinità, tipo Pan, un po’ ibride che nascevano dal rapporto tra un Dio e un essere umano] io ho sentito la storia di un uomo che non era né sciocco né imbroglione, alcuni di voi hanno ascoltato il  retore Emiliano [vi dico per inciso che Plutarco era un uomo coltissimo] che era figlio di Epiterse, mio concittadino e maestro di grammatica, proprio lui Epiterse gli raccontò che una volta navigando verso l’Italia si era imbarcato su una nave che trasportava merci con molto passeggeri a bordo. Di sera quando già ci trovavamo verso le isole Echinadi, il vento cadde di colpo e la nave trascinata dalla corrente giunse nei pressi di Paxos, la maggior parte dei passeggeri era sveglia e molti terminata la cena stavano ancora bevendo, all’improvviso si sentiva una voce dall’isola di Paxos come di uno che chiamasse a gran voce Thamus, tanto che restarono sbalorditi. Thamus era un pilota egiziano, ma a molti dei passeggeri non era noto per nome. [Questa voce quindi rivelò ai passeggeri il nome del nocchiero, Thamus] Chiamato per due volte lui stette zitto. Ma alla terza rispose a chi chiamava, e quello alzando il tono della voce disse “Quando sarai a Palodes annuncia che Pan il grande è morto”. Al sentire queste parole Epiterse diceva che tutti restarono sbalorditi e si chiedevano se eseguire l’ordine oppure non darsene cura, allora Thamus decise che se ci fosse stato vento avrebbero costeggiato la riva in silenzio, se invece giunti là avessero trovato bonaccia, avrebbero riferito la notizia [come diceva la voce, che il Dio Pan  è morto]. Quando infine giunsero a Palodes non un soffio di vento né un onda. Thamus allora a gran voce dalla poppa della nave si rivolse verso la terra e annunciò Il grande Pan è morto…” [Vedete la citazione di Lacan, dell’episodio dell’opera più vasta di Plutarco che si chiama Moralia, dove ci sono brani di qualsiasi tipo, filosofico, letterario religioso] “… Egli non aveva quasi finito che si levò un lamentoso pianto, non di uno solo, ma di molti, misto a stupore, e siccome molti uomini vi erano presenti ben presto la voce si è sparsa per Roma. [ricordiamoci che Plutarco vive tra il 46 e il 125 dc, quindi siamo nel periodo dell’imperatore Tiberio e infatti] l’imperatore Tiberio mandò a chiamare Thamus e tanta fu la sua fede nel racconto del marinaio che dovette fermarsi e fare indagini su questo Pan. I filosofi di corte congetturarono che fosse il figlio di Ermes e Penelope”. Questo è l’episodio dell’opera di Plutarco da cui sono tratte queste due righe molto belle di Lacan che ripeto : La leggenda pagana ci dice che sul Mar Egeo, al momento in cui si lacera il velo del tempo [che cosa vuol dire si lacera il velo del tempio, se non: si lacera il velo dell’illusione religiosa] risuona il messaggio, il grande Pan è morto.

Qui non abbiamo parlato d’altro fino a questo momento se non dell’enunciato: “Dio è morto”.

Se l’origine della religione viene ricondotta da Freud alla figura del Dio padre, a sua volta Lacan può dire: “Visto che Dio è morto vuol dire che è morto da sempre”. Così avevamo concluso la volta scorsa. Ma veniamo all’argomento di oggi.

 

“Bisogna pur prendere per vero, se seguiamo l’analisi di Freud, questo vero e cioè che si sa che Dio è morto – dice Lacan nell’Etica e aggiunge che ciò – cambia le basi del problema etico: ossia che il godimento resta proibito come prima che sapessimo che Dio è morto [Totem e tabù] … è tuttavia il Cristianesimo a rendere solidale questa morte con la Legge ossia che senza distruggere la Legge, ma sostituendosi ad essa, riassumendola nell’atto stesso con cui l’abolisce, l’unico comandamento è ormai AMERAI IL PROSSIMO TUO COME TE STESSO… conviene che ci fermiamo dinanzi a questo passaggio stretto dove Freud stesso [Il disagio della civiltà] si ferma, e arretra con un orrore giustificato. Il comandamento – Amerai il prossimo tuo come te stesso – gli sembra inumano”.

 

L’argomento che io avevo inviato come tema dell’incontro di oggi esordisce: “Bisogna pur prendere per vero … questo vero e cioè che si sa che Dio è morto…”, che è ciò che Lacan dice appunto nell’Etica, aggiungendo, che questo enunciato cambia le basi del problema etico, se si accetta la verità di Freud, ossia che il godimento resta proibito come lo era prima che sapessimo che Dio è morto, come risulta dalla storia raccontata in Totem e tabù, del padre primordiale ucciso dai fratelli perché stanchi di sopportare le sue angherie e le sue sopraffazioni. Questo mito inventato da Freud, dell’uccisione del padre, non è accettato per niente dagli etnologi e dagli antropologi, i quali denunciano che non c’è nessuna traccia nelle ricerche che hanno fatto loro sul campo di qualche cosa di questo tipo.

È proprio tutto inventato da Freud questo mito del parricidio primordiale, nel quale i fratelli avrebbero ucciso il loro padre e se ne sarebbero cibati, atto quest’ultimo in cui c’è anche l’idea dell’incorporazione che è un fatto fisico, ma che diventa metaforico nel senso che si assumono tutti i requisiti del padre cibandosi del suo corpo.

In effetti c’è anche in Totem e Tabù un punto in cui si suppone che probabilmente c’è stato uno dei caporioni di quel complotto che avrebbe voluto aver compiuto lui solo questo crimine per essere lui l’erede, e di aver assunto lui da solo tutti i requisiti paterni.

Di fatto Freud ci dice che il Cristo è colui che assume su di sé questo omicidio primordiale e fa questo dono di se stesso assumendo su di sé la colpa primordiale. In realtà la questione del cristianesimo e del Cristo che si assume la colpa va legata in tutto il saggio, L’Uomo Mosè e la religione monoteistica, al fatto che Freud sostiene, come abbiamo sentito nella prima parte di questa giornata dalla Dott.ssa Vennemann, che Freud tenta di dimostrare che in realtà ci furono due Mosè: il primo è un Mosè razionalista che è quello egizio che avrebbe raccolto l’eredità del faraone Akenaton e fatta sua l’esigenza di un monoteismo razionalista e cioè di una religione che cerca di spiegare con una sola entità, quella che dà luce e calore al mondo, la divinità unica che sostiene il mondo, contro il politeismo che vigeva nella religione egizia come pure in tutte le altre religioni dell’epoca.

A questo Dio razionalista, Lacan sembra dare un’importanza e un rilevo particolari: Lacan da giovane era un cultore di un grande filosofo di nome Spinoza, e se voi leggete la biografia di Lacan scritta da Elisabeth Rudinesco, trovate che nella sua stanza collegiale da ragazzo, perché lui ha studiato in un collegio religioso, teneva affissa a una parete tutta una mappa articolata con la esplicazione dell’Etica del filosofo Spinoza, che era colui che nutriva questo Amor intellectualis Dei, in realtà quest’amore intellettuale era l’amore per un Dio dialettico, che non era soltanto la passione di Spinoza, perché Lacan attribuisce lo stesso tipo di amore a Freud, dicendo che Freud pure lui era preso da questo Amor intellectualis Dei. Diremo noi che probabilmente anche lui, Lacan, in questa distinzione tra il Dio della dialettica e il Dio dei credenti, era incline a questo tipo di amore, contro il dio dei credenti.

Nell’Uomo Mosè e la religione monoteistica Freud avanza che Mosè avrebbe in qualche modo raccolto, fatto proprio e trasmesso, dopo la morte di Akhenaton, il messaggio della religione del dio Aton.

Dopo la morte di Akhenaton avvenuta in circostanze misteriose a una età ancora giovane – perché la cosa è durata pochissimo come ci ha spiegato la dottoressa Vennemann – dopo la sua morte, pur succedendogli al trono colui che era stato adottato come figlio con il nome di Tutankhaton, con la scomparsa del faraone riformatore la cosa sparisce velocemente perché i sacerdoti del dio Amon, che avevano un grandissimo potere in Egitto, ripresero il sopravvento e il nuovo faraone si chiamerà Tutankhamon.

Fu allora che Mosè, che probabilmente era un sacerdote della nuova religione del dio Aton, dice Freud sulle tracce di Sellin studioso suo contemporaneo, si sarebbe allontanato dall’Egitto con un gruppo di uomini ai quali aveva in qualche modo infuso questo culto dell’amore intellettuale per un dio.

Secondo Freud Mosè, che era un Grande uomo e come tutti i grandi uomini ad un certo punto diventano scomodi, viene ammazzato. Questa uccisione di Mosè da parte degli uomini che lui aveva portato fuori dall’Egitto con la nuova religione monoteistica, per Freud è come se fosse una ripetizione dell’assassinio narrato in Totem e Tabù dove i figli uccidono il padre.

Freud dice in sostanza che un Dio oscurantista sarebbe subentrato, dopo la morte del Mosè egizio, legato al Mosè Madianita, quello incontrato proprio lì nel Sinai. Questo dio oscurantista, di cui era portavoce il Mosè madianita, è quello che dice “Io sono quel che sono”, Lacan mette in guardia dal considerare l’altra formula che viene tramandata: “Io sono colui che è” perché gli ebrei dell’epoca non avevano niente di questa concezione dell’essere che era tipicamente greca. Il Mosè che parla nel roveto ardente è un dio geloso che dice: “Io sono quel che sono”, come dire “sono cavoli miei” e “finché voi siete al mio cospetto non potete adorare altro dio”, non dice “non avrete altro dio all’infuori di me in generale”, ma: “finché siete qui e ci sono io che sono quel che sono voi non adorerete altro dio”.

Un Dio oscurantista dunque, ma è grazie a questo dio oscurantista che si è conservata anche la tradizione del messaggio originario del dio razionalista cioè il messaggio originario del dio della dialettica, del dio Akhenaton rappresentato dal disco solare.

Si è potuto conservare solo grazie al fatto che il popolo ebraico, essendo sotto l’influsso del senso di colpa per aver ucciso Mosè, ha portato e trasmesso nella rimozione questa religione originaria del dio razionalista.

Questo è il discorso fatto da Lacan sulla scorta di Freud, vale a dire che grazie alla religione del Mosè madianita, del Mosè oscurantista si è potuto nel rimosso trasmettere la religione del Mosè egiziano. Su questa base la tradizione giudaico cristiana ha, secondo Freud, uno sviluppo originale, dove alla fine il Cristo è colui che assume su di sé la colpa del padre e fa lui questo dono di morire sulla croce che è la terza morte, perché la prima morte sarebbe quella del mito, del padre primordiale in Totem e Tabù, la seconda morte sarebbe quella di Mosè, e la terza morte sarebbe quella del Cristo ed è grazie a questo sacrificio del Cristo, dove in qualche modo l’assassinio primitivo è stato riscattato, che si è potuto trasmettere la verità, e la verità è che Dio è morto.

A questo punto Lacan ricorda che Freud non trascura il nome del padre, vediamo il passaggio… ma prima di leggere questo passo voglio tornare un attimo a quello che stavo dicendo prima perché vi voglio leggere le parole di Lacan per fissare bene quello che fino ad ora ho cercato di articolare: “Se questo Dio sintomo, questo Dio Totem e pure Tabù merita che ci si soffermi sulla pretesa di farne un mito è perché egli è stato il veicolo del Dio di verità, è stato il veicolo della verità che questa religione del dio oscurantista ha potuto trasmettere sotto traccia nel rimosso, la verità del dio Aton del dio razionalista del dio della dialettica. È grazie a lui che si è potuto dire la verità e cioè che dio è stato ucciso dagli uomini, questo è il mito di Totem e Tabù e la cosa essendosi riprodotta con Mosè che è stato ucciso come il padre primordiale, l’assassinio primitivo è stato riscattato da Cristo che ha assunto su di sé la morte del padre e si è fatto uccidere…” – Osservate adesso come nella frase seguente, in modo conciso ed ellittico, Lacan sintetizza tutto – “la verità trovò la sua strada grazie a colui che la scrittura chiama indubbiamente il verbo, ma anche figlio dell’uomo, confessando così la natura umana del padre”.

Torniamo adesso a ciò che avevo promesso di leggere perché ci dà dei lumi sul caso clinico che poco fa abbiamo analizzato: “Freud non trascura il nome del padre al contrario ne parla molto precisamente in Mosè e il monoteismo, in modo contraddittorio agli occhi di colui che non prendesse Totem e Tabù per quello che è ossia un mito, dicendo che nella storia umana il riconoscimento della funzione del padre è una sublimazione essenziale all’apertura di una spiritualità” – è l’apertura che mancava nella topologia familiare del caso clinico che abbiamo analizzato prima, dove lo stesso spazio domestico era articolato in modo chiuso e senza spiragli per la spiritualità di cui parliamo – “la  quale rappresenta una novità, un passo avanti nel cogliere la realtà come tale”; questo tipo di riflessioni ad alto livello psicanalitico ci servono anche per analizzare certi casi clinici davanti ai quali restiamo molto perplessi.

“Freud non trascura il padre reale, tutt’altro, per lui è auspicabile che nel corso di ogni avventura del soggetto ci sia se non il padre come un dio per lo meno come un buon padre; vi leggerò un giorno un passo di Freud in cui parla dell’accento quasi tenero e squisito di quell’identificazione virile che deriva dall’amore per il padre e del suo ruolo nella normalizzazione del desiderio, però chiarisce che un tale effetto, nella sua modalità favorevole, si produce solo nella misura in cui tutto è in ordine dal lato del Nome del padre” cioè alla condizione che ci sia questa funzione del Nome del padre – cosa che era totalmente assente nella famiglia del caso clinico che abbiamo prima ascoltato.

Adesso andiamo avanti e parliamo di questa questione del “vero” di cui abbiamo parlato finora, questo “vero” che si sa che Dio è morto, che io avevo messo nell’argomento di oggi, che avevo composto con due citazioni da me tratte propriamente da due lezioni consecutive di questo libro che raccoglie il seminario di Lacan L’Etica della psicanalisi, lezioni dove tutto questo è stato articolato a più riprese da Lacan sulla traccia di Freud, riprendendo più volte la stessa argomentazione, dopo aver fatto qualche  digressione a scopo dimostrativo.

Torniamo dunque alla questione centrale sulla verità freudiana assunta per vera da Lacan.

Lacan articola che tuttavia è il cristianesimo a rendere solidale questa morte con la legge, ossia che senza distruggere la legge ma sostituendosi ad essa, la riassume:  nell’atto stesso in cui la abolisce, genera il comandamento AMERAI IL PROSSIMO TUO COME TE STESSO, che è la legge fondamentale del cristianesimo.

Lacan rileva, leggendo Il disagio della civiltà, che rispetto a questa legge “Amerai il prossimo tuo come te stesso”, Freud arretra sempre inorridito e si chiede perché.

Lacan ci dice che a seguire Freud dobbiamo formulare che siamo davanti a qualcosa che è un godimento e che questo godimento è un male perché comporta il male del prossimo.

Ciò che è inaccettabile da ognuno è il fatto di rompere, danneggiare il bene dell’altro, ma in realtà se ci asteniamo da questo godimento è perché temiamo questo male che è in noi stessi. Il passo che segue è riportato da Lacan dal Disagio della civiltà, che si sofferma sulla “tendenza dell’uomo alla cattiveria e all’aggressione e quindi anche alla crudeltà” e non è tutto, “l’uomo cerca di soddisfare il proprio bisogno di aggredire a spese del suo prossimo e di sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarla, di servirsene sessualmente senza il suo consenso, impossessarsi dei suoi beni, di umiliarlo di farlo soffrire, di torturarlo e di ucciderlo”.

L’uomo è fatto così: non è buono, è fondamentalmente cattivo. Freud può dire questo perché lo ritrova nella parte più profonda di se stesso, e scrive: “ma come faccio io ad amare il prossimo mio come stesso se l’altro ha queste stesse caratteristiche che io riconosco in me, come è possibile fare questo?” La soluzione teorica la dà Lacan in modo chiaro e conciso: “se noi torniamo indietro rispetto ad godimento è perché in qualche modo attentiamo all’immagine dell’altro su cui abbiamo formato il nostro io”, è quindi davanti a questo che arretriamo inorriditi.

La prassi dell’etica tradizionale è che il piacere è un bene, la via del bene ci è tracciata dal piacere ma in realtà è qualcosa da cui noi restiamo abbindolati perché si tratta di un “richiamo” ingannevole. Qui Lacan utilizza il termine leurre, logoro, che è il “richiamo” del cacciatore con il falcone, è un richiamo ingannevole, un oggetto artefatto che imita con delle penne la forma di un uccello. Del resto a proposito di questa dialettica del bene e del principio di piacere, prima ancora di scrivere L’aldilà del principio di piacere, la prima formulazione di Freud sul principio di piacere era basata sul principio di dispiacere, cioè il piacere risiedeva tutto nel minor patimento possibile. Il commento che fa Lacan è che per avere piacere dobbiamo tenerci al di qua del dispiacere, ma il fatto che ci teniamo al di qua del dispiacere comporta che stiamo lontani dal godimento che sta al di là.

Ciò che sostiene in sostanza Lacan è che il godimento si trova esattamente al di là del principio di piacere. È la pulsione di morte.

Tant’è vero ci dice Lacan che nella morale tradizionale filosofica c’è il predominio dell’edonismo e spiega “non rimprovereremo alla suddetta tradizione edonistica gli effetti benefici del piacere che magari ci sono, soltanto che la tradizione non dice che cos’è questo bene, e allora ritorniamo al comandamento: Amerai il prossimo tuo come te stesso”.

Freud arretra inorridito e fa tutta una serie di discorsi, che io sono andato a rintracciare nel Disagio della Civiltà, è il paragrafo cinque, dove inizia a parlare dell’amerai il prossimo tuo come te stesso in modo molto diffuso e troviamo qui, come dice Lacan, tutta la concezione aristotelica dei beni. Ricordate che per Aristotele il bene è un habitus, spontaneo, perché il piacere è conforme natura. Anche la scuola cirenaica di Aristippo, la tradizione filosofica ripresa da Epicuro, sostiene: Il piacere è il principio e il fine della vita.

Quello che invece sostiene Freud nell’Aldilà del principio di piacere, che cronologicamente precede Il disagio della civiltà, è, come vedremo la prossima volta, tutta un’altra cosa, perché vengono valicati questi limiti.

Qui al contrario Freud si interroga sul comandamento “Amerai il prossimo tuo come te stesso” e articola in modo dialettico le sue argomentazioni, confrontandosi cioè con un ipotetico interlocutore al quale dà il compito di confutare ciò che lui articola.

Secondo Lacan Freud ci dice cose sensate: “Non basta che qualcuno mi si avvicini perché io lo debba amare: bisogna amare il figlio di un amico certo, per il fatto che se di questo figlio l’amico fosse privato per lui la sofferenza sarebbe intollerabile”. Ma qui, a questo punto, Lacan si chiarisce spiegando che con tutte queste cose ragionevoli citate da Freud sull’altruismo, siamo nell’articolazione del bene ma non siamo propriamente nel tema del comandamento “Ama il prossimo tuo come te stesso”.

Leggiamo direttamente  quel che dice Lacan e utilizziamo le sue parole: “Ci possiamo basare sulla constatazione che ogni volta che Freud si arresta come inorridito di fronte alle conseguenze del comandamento dell’amore del prossimo, quel che emerge è la malvagità fondamentale che abita nel prossimo.” Che cosa ne deduce Lacan? “Ma allora questa malvagità fondamentale che abita nel prossimo, abita anche in me stesso e che cosa mi è più prossimo di questo cuore dentro me stesso che è quello del mio godimento a cui non oso avvicinarmi?”

Quindi questa malvagità fondamentale dell’uomo è anche il godimento fondamentale dell’uomo. E allora è qui che l’uomo si arresta perché non riesce a valicare questo limite: ciò che mi impedisce di varcare un certo limite che mi porterebbe verso das Ding, perché al di là ci sta das Ding, cioè l’al di là del principio di piacere, in quel campo esterno che è stato escluso dall’interno di quell’apparato governato dal principio di piacere, il Real-Ich, e che non possiamo non considerare un interno escluso; sicché il limite opera sia verso l’esterno che verso l’interno.

A questo punto Lacan fa un passo molto interessante perché ci dice “è forse questo il senso dell’amore del prossimo che potrebbe ridarmi la direzione autentica, il godimento del mio prossimo il suo godimento nocivo il suo godimento maligno è quello che si presenta come il vero problema per il mio amore.” In sostanza quello che sofisticamente sostiene Lacan è che, paradossalmente, la resistenza che Freud prova di fronte al comandamento “Amerai il prossimo tuo come te stesso” e la resistenza che si esercita per  ostacolare l’accesso al godimento di ogni uomo, sono una sola e medesima cosa. Cioè se Freud arretra davanti a questo comandamento è perché si trova senza saperlo nella stessa posizione di chi arretra davanti al proprio godimento. L’orrore di arretrare davanti al proprio godimento è causato dall’aggressività inconscia che esso contiene, quel  nucleo temibile di destrudo.

Lacan riassume tutto in questa frase: “Mi tiro indietro dall’amare il mio prossimo come me stesso in quanto all’orizzonte di ciò, c’è qualcosa che partecipa di non so quale intollerabile crudeltà, in questa direzione amare il mio prossimo può essere la via più crudele”. In questo sofisma ci sono le conseguenze che trae Lacan da Freud, perché Freud fa questa analisi e arriva fino ad un certo punto e non va oltre, mentre Lacan cerca di fare un passo in più dando la parola a Sade, perché dice che è proprio Sade che compie questo passo ed entra in questo spazio del prossimo e se ne infischia di tutto quello che può essere l’immagine dell’altro su cui io ho formato il mio proprio io: ecco perché Sade risulta illeggibile e intollerabile.

Io sono andato a vedere a suo tempo il film di Pasolini Le cento giornate di Sodoma e Gomorra e ho constatato che a un certo momento diventa intollerabile, perché quello che fa Pasolini in quelle scene è quello di superare l’immagine del prossimo sul quale io ho formato il mio proprio io e lui la violenta e la distrugge, è un film che ci vuole fegato a guardarlo, pur considerando che infine è solo una finzione.

Del resto anche quello che fa Sade lo fa esclusivamente nella letteratura naturalmente, non è nell’esperienza di vita che commette questi crimini ma soltanto in un’opera letteraria.

A tale proposito Lacan dice. “Se il soggetto torna indietro rispetto al godimento è a causa dell’identificazione con l’altro con il suo simile: arretriamo di fronte all’immagine dell’altro perché è l’immagine sulla quale ci siamo formati come io”. “Qui sta la potenza convincente dell’altruismo. Siamo solidali con tutto ciò che poggia sull’immagine dell’altro in quanto nostro simile, sulla somiglianza che abbiamo con il nostro io e con tutto ciò che ci situa nel registro immaginario”

È vero, ammette Lacan per un momento, che questa idealizzazione, che regola i principi di solidarietà, potrebbe anche considerarsi il fondamento della legge, “Ama il prossimo tuo come te stesso”, perché si tratterebbe appunto dello stesso altro, ma a ben vedere, egli subito aggiunge, sono evidenti le contraddizioni pratiche, sia individuali, intime, sia dei rapporti sociali legati all’idealizzazione che si esprime nel rispetto dell’immagine dell’altro.

È la stessa idealizzazione che fa sì che Freud arretri, pur avvertendo che lì c’è un punto di impasse: “come faccio io ad amare il prossimo mio come me stesso se ciò che ho di più prossimo in me è dominato da un sentimento di destrudo”. Sade sta su questo limite e permette di superare questa idealizzazione immaginaria, ma ovviamente lo fa in letteratura. Io mi fermo qui perché quello che dovevo dire l’ho detto e la prossima volta facciamo questo passaggio a Sade e alla pulsione di morte.

 

Trascrizione di Valentina Bellini