Edipo a Colono

Edipo a Colono

Luigi Burzotta

 

La storia di questo personaggio si profilava nel più grande drammaturgo dell’Antichità in una cerimonia religiosa.

Tutti sanno che Freud ha fatto di questo mito greco l’eroe patronimico del complesso fondamentale della psicanalisi.

Di questo Jacques Lacan avrebbe detto che non è poi così tanto complesso, ma per farne piuttosto il sostegno della sua teoria del Nome.

Tuttavia ancora all’inizio del suo insegnamento – alla stessa epoca in cui il popolo eterogeneo del castello di La Borde, ogni mercoledì della settimana, svuotava di tutto il suo personale questo Asilo psichiatrico di tendenza avanguardista, per recarsi a Parigi al Seminario del Maestro – Lacan era tutto impegnato ad articolare l’aldilà di Edipo.

Ebbene davanti a un uditorio così numeroso che mischiato egli poteva dire che “Edipo nella sua stessa vita è tutt’intero questo mito. Egli stesso non è null’altro che il passaggio dal mito all’esistenza. Ch’egli sia o non esistito importa poco, perché sotto una forma più o meno riflessa egli esiste in ciascuno di noi, egli è dappertutto, ed esiste ancor più che se fosse realmente esistito”.

Ciò che viene affermato in quel momento da Lacan, pur sapendo che questo mito non è utilizzabile nella pratica psicanalitica, è che “Edipo esiste, e ch’egli ha realizzato pienamente il suo destino fino a un tale termine, da essere solo qualcosa d’identico a una folgorazione, a uno strazio, a una lacerazione di se stesso – da non essere più, assolutamente più, nulla”.

Tutto si compie fino al termine ultimo nella sua storia come era già scritto prima ch’egli fosse nato, fino al punto che Edipo lo assume con il suo atto di automutilazione, ma è in quanto egli è già passato allo statuto di padre che si strappa gli occhi dalle orbite.

È proprio a partire da quest’atto ch’egli domanda che lo si lasci prender posto nel recinto sacro delle Eumenidi, dove c’è diniego della parola e dove per Edipo comincia l’aldilà del principio di piacere realizzando così la sua parola fino al termine ultimo.

Se c’è un posto dove occorre che le parole si arrestino, è forse, ci dice Lacan, “perché esse sussistano in questo recinto”.

La morte di colui che ha ucciso suo padre e giaciuto con la madre non è differente dalla fine dell’ultimo discendente della genealogia mitica, dove la castrazione si propaga di padre in figlio, Zeus, che “dopo aver fatto molto l’amore infine svanisce davanti a un soffio”.

Qualcosa di simile accade per Edipo in quel recinto, e ciò che accade è di un orrore sacro, di intollerabile a guardare, è una specie di volatilizzazione, che a Lacan evoca l’esperienza del protagonista nel racconto di Edgar Alan Poe, il Signor di Valdemar, che ipnotizzato in articulo mortis, quando lo si sveglia, “altro non è che una liquefazione disgustosa, la totale ricaduta di quella specie di rigonfiamento ch’è la vita – la bolla si affloscia e si dissolve nel liquido purulento inanimato”.

A tutto questo, al dramma di quello il cui essere è tutt’intero formulato nel suo destino, fa eco il testo di Freud: Non crediate che la vita sia una dea esaltante sorta per giungere alla più bella delle forme, che ci sia la minima forza di compimento e di progresso. La vita è un rigonfiamento, una muffa, non è caratterizzata da nient’altro che dalla sua attitudine alla morte.

Questa parola muffa ci riconduce subito a ciò che oggi fa irruzione nell’esistenza dell’uomo, questa forma di vita allo stato bruto che non ha una struttura cellulare che gli permetta di riprodursi ma che ha bisogno degli umani per propagarsi nel globo intero, mutando continuamente il suo DNA.

Questa vita allo stato bruto, sprovvista di significazione, si allaccia al giro di questa vita che è la nostra, per se stessa transitoria e caduca, ma togliendogli per il mezzo della sua virulenza quel qualcosa che si era prodotto, che insiste attraverso la nostra vita per dargli un senso.

La morte che sopraggiunge a causa del virus è ancora la morte che può dare un senso alla vita?

Un’immagine s’impone a questo punto, quella dei cortei fatti di carri telonati dell’Esercito italiano, che trasferiscono le migliaia di salme da una città all’altra alla ricerca di un crematorio. Il triste carico di quei carri è segnalato dalla lentezza solenne della marcia, che erano le soli onoranze funebri che si potevano loro tributare. Ecco che finalmente il simbolico riemerge con un senso, con un ordine che sorge.

In questo strangolamento della vita congiunta alla morte; in questo corridoio senza uscita, senza speranza che può apparire pure la dialettica freudiana regolata dal masochismo primordiale, in questo istinto di morte radicale di cui Freud ci parla, il genio di Lacan intravede nondimeno la via della pulsione dove il desiderio sorge per il tramite del simbolico.

Per concludere vado all’ultima lezione del Seminario II sul quale il mio discorso si basa, proprio all’ultimo paragrafo dove Lacan avanza che “l’ordine simbolico è rigettato dall’ordine libidico che include tutto il dominio immaginario, ivi compresa la struttura dell’io. E l’istinto di morte non è che la maschera dell’ordine simbolico, in quanto – lo scrive Freud – esso è muto, vale a dire in quanto esso non è realizzato. Fin tanto che il riconoscimento simbolico non si è stabilito, per definizione l’ordine simbolico è muto.

L’ordine simbolico al tempo stesso non-essente e insistente per essere realizzato, ecco ciò che Freud mira quando ci parla dell’istinto di morte come di ciò che vi è di più fondamentale, – un ordine simbolico in giacenza, sul punto di venire, insistente per essere realizzato”.

In questa prospettiva, nel momento in cui l’ordine simbolico si realizza, l’istinto di morte dovrebbe volatilizzarsi trasmutandosi in pulsione – fosse pure di morte. In ogni caso è nell’ordine simbolico che, per l’intermediario della parola, è aperto lo spazio al desiderio, inconscio per definizione, permettendo all’essere di parola ogni possibilità di creazione ex nihilo.