L’insieme vuoto

L’insieme vuoto

Luigi Burzotta

 

 

Nella lezione XXIV del Seminario Da un Altro all’altro (18 giugno 1969), Lacan articola che “tutto ciò che si lascia prendere nella funzione del significante non può essere due senza che nel luogo dell’Altro si scavi ciò a cui […] h[a] dato lo statuto dell’insieme vuoto”.

Certamente “tutto ciò che si lascia prendere nella funzione del significante” si può solo correlare a chi è dotato di parola, all’essere che, abitando il linguaggio si trova articolato tra un primo significante che lo rappresenta come soggetto in rapporto a un altro significante nel campo dell’Altro.

Il primo significante, quello maestro, è quello che già al suo sorgere quale “primo detto”, “[…] decreta, legifera, si pone come aforisma, è oracolo; conferisce all’altro reale la sua oscura autorità. […] Basta che prendiate un significante come insegna di questa onnipotenza, cioè di questo potere tutto in potenza, di questa nascita della possibilità, perché abbiate il tratto unario che, colmando l’invisibile marchio che il soggetto riceve dal significante, aliena questo soggetto nella prima identificazione, quella che forma l’ideale dell’io (Scritti p. 810)”. Questo tratto unario non solo non è unico, perché estratto, come uno qualunque, stupido e insensato, dal mucchio, ma sorge a posteriori, nel posto di S1, cioè significante indice uno, nel posto dove come significante maestro ha il privilegio di rappresentare il soggetto.

Rappresentazione che per se stessa implica una relazione duale con un altro significante che si iscrive nel campo dell’Altro, qui il secondo 1 tra le due parentesi, 1(1(Ø), che logicamente precede il primo 1.

Questo secondo significante, che altre volte Lacan ha designato come S2, nella detta lezione è denominato un Altro, vale a dire un secondo uno nel campo dell’Altro, presso il quale il significante indice uno, il primo a sinistra, rappresenta il soggetto, che, pertanto, può apparire come soggetto soltanto al livello del significante dell’Altro: S(A).

Rappresentazione che non trova qui garanzia di stabilità, perché l’uno iscritto in questo campo rinvia indefinitamente a un altro uno, da iscrivere sempre nello stesso campo dell’Altro, che pertanto resta un insieme vuoto: 1(1(1(1(Ø).

Questa operazione, che apporta una barra sull’Altro, svelandolo come un insieme vuoto incolmabile, nella sua ripetizione indefinita dell’uno nel campo dell’Altro designa la struttura di ciò che Lacan chiama oggetto piccolo a.

È questo il senso del titolo di questo Seminario Da un Altro all’altro.

C’è tuttavia una struttura, quella del perverso, che vota se stesso a garantire l’integrità dell’Altro, come tra poco vedremo.

Da dove viene, secondo Lacan, questa impossibilità per il soggetto a fare due? Egli non ha dubbi, essa discende direttamente dall’impossibilità del parlessere a scrivere il rapporto sessuale.

Nella lezione VI del Seminario Les non-dupes errent (12 febbraio 1974), appoggiandosi su I primi analitici di Aristotele, dai quali desume la dimostrazione che “lo scritto si mostri con una dimensione altra rispetto al dire”, Lacan sostiene che “il dire vero si può definire come il solco per il quale passa ciò che supplisce all’assenza, all’impossibilità di scrivere il rapporto sessuale”, qualcosa cioè dell’ordine dello scritto perché “soltanto attraverso lo scritto si determina il Reale”.

“Tuttavia – egli prosegue – la pratica del discorso analitico, dove è in atto il dire vero – cioè dire delle sciocchezze, quelle che ci capita, quelle che detestiamo – dimostra che si arrivi ad aprire la strada verso qualcosa che, in modo del tutto contingente e per errore, cessi di non scriversi, che cioè tra due soggetti si arrivi a stabilire qualcosa che ha tutta l’aria di scriversi: da cui l’importanza che io do a ciò che ho detto la lettera d’(a)muro”.

Secondo Lacan questo rettifica un poco il senso del dire vero come distinto dalla scienza del Reale. Anzi lo cambia del tutto perché, per una volta, il solco del dire vero non è vuoto: vi passa qualcosa.

Al contrario del discorso del Maître che si fonda sull’imperativo del significante Maestro, il discorso psicanalitico svela che questo significante è lì per il semplice fatto che il significante esiste, che ce n’è un mucchio, dove ognuno è uno qualunque e in più dimostra che al posto di due che potrebbero essere soggetti del rapporto sessuale, ci sono due significanti, ed è proprio questo e nient’altro che scorre nel solco del dire vero.

Perché questo avvenga occorre che S2, il significante indice 2, non abbia niente a che fare con il dire vero, che S2 sia reale.

Perché il dire vero riesca a farsi intendere deve agganciare il sapere inconscio, per supplire all’assenza di ogni rapporto tra l’uomo e una donna.

Si può considerare questa pratica di scrittura inconscia che privilegia la lettera per mettere in cifra, per cifrare – si può dunque considerare questa cifratura dello stesso ordine della logica come scienza del Reale, perché in entrambe si tratta di qualcosa che si scrive: uno scritto che si legge decifrando.

Per tornare alla struttura psichica, quella perversa, che si dedica all’apparente restauro dell’integrità dell’Altro, non più segnato da una barra, mediante l’oggetto a, Lacan impiega una metafora, dicendo che questo restauro avviene mediante “il calco immaginario della struttura significante”.

Egli la illustra portando ad esempio il rapporto fra i racconti di Anna O. e quel suo sintomo, tipico dell’isterica, come qualcosa che si svuota al livello del corpo, un campo in cui svanisce la sensibilità: il braccio isterico, che solo e soltanto come unità significante è paralizzato: l’anatomia è fuori discussione. Vediamo qui il rapporto stretto tra ciò che si articola e ciò che fa sintomo.

Da un lato, nel solco del dire vero, la Talking cure,  si manifesta qualcosa dell’ordine dello scritto, una scrittura sul corpo.

In questo quadro Freud occupa il posto dell’un Altro, il secondo significante presso il quale si instaura il soggetto, rappresentato dal significante braccio. Assistiamo così al miracolo di un soggetto che trova il suo avvento proprio presso colui che è rimasto lì servilmente ad ascoltare. Ecco perché parlare di liquidazione del transfert è una sciocchezza.

Dall’altra, su questo basamento di un soggetto che si fa sapere nel campo dell’Altro, possiamo osservare che in quel campo svuotato del corpo dell’isterica per fungere da significante, c’è il primo abbozzo di una struttura che viene a prendervi il proprio calco immaginario: l’oggetto piccolo a, qui rappresentato dal calco dell’immagine della struttura significante del braccio paralizzato, dove il richiamo dell’attenzione rivolto all’Altro è solo un tratto di esibizione; come dire che nella nevrosi è riscontrabile un primo abbozzo della struttura perversa, ma non la perversione.

Questa metafora secondo Lacan può aiutare a concepire che cosa riesca a funzionare nel perverso per ripristinare l’Altro nella sua pienezza, come A senza barra. Si tratta, precisamente, della statua come incitazione al voyerismo, nella misura in cui questa perversione rappresenta l’esibizione fallica. Lacan vede propriamente rappresentato in ogni statua barocca, fosse pure la più sacra, lo sguardo come oggetto pulsionale.

Ritorniamo al nevrotico che nella prassi analitica instaura quel solco del dire vero perché un significante S1 lo rappresenti come soggetto presso quel partner cui suppone un sapere S2.

Quest’articolazione minima, nella sua schiettezza, alla luce del suo funzionamento nel nevrotico ossessivo svela ciò che logicamente non va nella dialettica servo padrone della fenomenologia di Hegel.

“Il padrone, in quanto funziona come uno, un significante, non sussiste se non nella misura in cui è rappresentato presso un secondo uno che si trova nell’Altro, in quanto questo raffigura il servo, unico posto in cui risiede la funzione soggettiva del padrone. Tra l’uno e l’altro non c’è niente in comune se non […] la messa in gioco, da parte del padrone, della propria vita. In ciò consiste l’atto di padronanza, il rischio di vita […] e il suo garante è precisamente quello che, nell’Altro, è il servo, a titolo di significante presso il quale si sostiene il padrone come soggetto […] Il sostegno che vi trova il padrone non è nient’altro che il corpo del servo in quanto perinde ac cadaver […]”.

In verità se c’è qualcosa che resta fuori da tutto questo apparato della lotta a morte di puro prestigio è proprio la morte, che, se in qualche modo si profila in tutta la fenomenologia del padrone e del servo è solo a livello del servo, perché di reale c’è solo il servo, presso il quale è rappresentato il padrone in una dialettica che Hegel fa progredire verso il sapere assoluto.

Lacan fa notare sull’esempio del nevrotico che questo sapere, come il coniglio nel cappello, vi era già messo fin dall’inizio sotto forma di soggetto supposto sapere.

La messa in gioco del soggetto supposto sapere permette di articolare la posizione dell’ossessivo, che si riferisce al modello del padrone ma che, rinviando a un futuro senza domani la messa in gioco della sua posta, il rischio di vita, evita di prendersi per il padrone ma, supponendo che questi sappia ciò che vuole, ne attende semplicemente la morte.

Per analogia Lacan applica questo modello all’isterica che prenderebbe come riferimento il soggetto la donna, “credendo che la donna sia quella che sa che cosa ci vuole per il godimento dell’uomo”.

Partiamo dunque da questa supposizione di sapere attribuita dall’isterica alla donna, mentre nel modello è inconsciamente che questa lo sa.

“Là dove, nella scommessa inaugurale di questa dialettica, il soggetto padrone ingaggia il rischio di vita, la donna rischia, scommette il godimento.

Questo godimento non è il suo godimento, che, com’è noto, è per lei inaugurale ed esistente, e che non solo ella ottiene senza quegli sforzi e quei giri che caratterizzano l’autoerotismo nell’uomo, ma che permane sempre in lei, distinto e parallelo rispetto al godimento che ella ottiene essendo la donna dell’uomo, rispetto al godimento che trova soddisfazione nel godimento dell’uomo. La posta in gioco, da cui la donna è avvinta, a cui si appassiona come il padrone al servo, è il godimento dell’uomo”.

Questo non vuol dire che la donna si identifichi al godimento dell’uomo.

“Al contrario come il servo è legato alla morte, sussiste solo per la sua relazione con essa e con tale relazione fa sussistere tutto il sistema, così il rapporto della donna con la castrazione è ciò che fa reggere tutto l’apparato”.

Allo stesso modo dell’ossessivo che, pur avendolo di mira come colui che sa, non si prende per il padrone che mette in gioco la morte, l’isterica non si prende per la donna che mette in gioco il godimento dell’uomo, ma è affascinata dalla donna perché la ritiene supposta sapere ciò di cui questa ha solo un sapere inconscio, vale a dire che cosa ci vuole per il godimento dell’uomo. Tuttavia ciò che interroga l’isterica della donna, è che questa, pur dotata di tale sapere, non si renda conto che tutto ciò che sostiene nella sua funzione di soggetto donna, sfocia nella castrazione dell’uomo; cosa che a lei, l’isterica, risulta invece chiaramente palese.

Viene da chiedersi se il sapere che l’isterica suppone alla donna non sia proprio quello che lei stessa ha ma che non le pertiene, anzi la disgusta; sicché ciò che veramente l’affascina della donna è di votarsi senza saperlo alla castrazione dell’uomo. Allora si spiega perché “l’isterica fa l’uomo che supporrebbe che la donna sappia”.

La supposizione di sapere è dunque un fattore comune alle due nevrosi.

“Le verità nascoste le nevrosi le suppongono sapute.

Occorre liberare i nevrotici da questa supposizione affinché cessino di rappresentare tali verità nella loro carne”

Nel nevrotico  c’è coalescenza tra la struttura inconscia e soggetto supposto sapere; di modo che egli interroga la verità della propria struttura diventando egli stesso questa interrogazione incarnata finché l’intervento dell’analista non operi il taglio tra l’una e l’altro; d’altra parte è proprio la supposizione del soggetto supposto sapere che rende il nevrotico naturalmente psicanalizzante, giacché questa supposizione istituisce da sé, fin dall’inizio, prima di qualsiasi analisi, il transfert.

Il taglio operato dall’analista risulta per l’ossessivo una vera operazione chirurgica, eseguita con interventi puntuali e misurati sulle rituali formule protettive, per lo più pregiudiziali, ridondanti e spesso rimessiticce, che impastoiano il discorso ossessivo per ritardare all’infinto l’appuntamento con la fatidica cessione di qualcosa di prezioso e enigmatico, che infine, grazie al taglio, si potrebbe rivelare la maschera di un risibile nonnulla.

Formule che svelano la loro superfluità nei momenti in cui un elemento inatteso nel dire del paziente è isolato dall’analista e messo in riga fuori contesto per l’apertura di una nuova pagina, dove lo stile del dialetto ossessivo, snellito ed epurato da quei vincoli, assuma una nuova fluidità del dire, aprendo la strada all’avvento di un nuovo discorso più consimile al solco isterico, dove soltanto è possibile il transfert di parola e il libero esercizio della lettera per l’invenzione di un sapere nuovo nella forma della scrittura inconscia.